Recensioni a La
miniera (non sono
ancora disponibili tutti i testi)
Mario Bernardi Guardi, Giovannini e
Damiani: l'avventura di far poesia, "Il Tempo", 7 giugno 1997 Gabriella
Sica, La miniera, "La Stampa - Tuttolibri", 24 luglio 1997 Ermanno
Krumm, La miniera, "Il Foglio", 1 agosto 1997 Enzo
Siciliano, Con Orazio nella miniera, "L'Espresso", 14 agosto
1997 Elio Pecora, Quando l'amore cede al distacco e non alla
perdita, "La Voce Repubblicana", 29 agosto 1997 Ermanno
Paccagnini, ll fervore degli editori e la risposta degli autori, da
Viviani a Conte, Mussapi e Damiani Non disperiamo, la salvezza è dietro
l'angolo. Parola degli amici poeti, "Famiglia Cristiana", 3
settembre 1997 Giovanni
Mariotti, E in fondo alla miniera c'è Orazio, "Corriere della Sera", 22
settembre 1997 Umberto Fiori, La miniera, "Atelier", n.7, settembre
1997 Daniele Piccini, La miniera rompe con l'intimo Fraturno,
"Letture", ottobre 1997 Stefano Crespi, Se appare il colore
dell'indicibile, "Il Sole-24 Ore", 19 ottobre 1997 Giovanni Mariotti,
Ci sono anche gli autori ornitorinchi, "Corriere della Sera", 26 ottobre
1997 Franco Loi, Chiara, dolce, fresca è la lingua, " Il Sole-24 Ore",
2 novembre 1997 Domenico
Adriano, La miniera, "Avvenimenti", 26 novembre 1997 Bianca
Garavelli, Da
Bertolucci a Damiani, sperimentali e crepuscolari, "Avvenire", 13 dicembre
1997 Stefano Lecchini, E la poesia tornò a raccontare, "Gazzetta di
Parma", 23 dicembre 1997 Giovanna
Sicari, La miniera, "Galleria", n. 3, settembre-dicembre
1997 Daniele Piccini, I libri di un anno. Le uscite di poesia
italiana del 1997, "Poesia", n. 113, gennaio 1998 Roberto Carvelli,
Damiani, poesia dentro il tempo, "L'Adige", 19 gennaio 1998 Francesco
Vinci, La miniera, "Poesia '97", a cura di Giorgio Manacorda,
Castelvecchi, 1998 Roberto Grandinetti, Ma Pascoli illumina il lato
buio della storia, "Il Quotidiano", 1 maggio 1998 Roberto
Galaverni, Claudio Damiani. La bianca miniera della poesia, "Nuovi
Argomenti", n.1/2, Quinta serie, gennaio - giugno 1998 Pasquale Di
Palmo, in "Il Golfo", n. 9-10, settembre-ottobre 1998 Gian
Mario Villalta, La miniera. La compostezza delle cose, "Tratti", n.49,
autunno 1998 Plinio Perilli, in Melodie della terra, Crocetti,
Milano, 1998 Giancarlo Pontiggia, La miniera, "Poesia", n.131,
settembre 1999 Roberto Galaverni, in Contemporary Italian Poets -
Modern Poetry in Translation No. 15, King's College London,
1999
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Domenico Adriano, La
miniera, "Avvenimenti", 26 novembre 1997
"Il sentiero sale fiorito /
sorridente di biancospini bianchi / . Come mi vede è contento / e vuole
giocare girando le curve" …"Cara strada / tu ti muovi lenta / e non vuoi
arrivare subito"… "E la casa sta zitta chiusa / perché nessuno è più
entrato. / Se ti vedesse aprirebbe le finestre / e correrebbe sulla via ad
abbracciarti"…Diamo qui dei lacerti - e vorremmo citarlo tutto questo
delicato libro di Claudio Damiani ( San Giovanni Rotondo, 1957 ) che si è
voluto intitolare 'La miniera" e lega a sé due libri precedenti,
'Fraturno' e 'La mia casa' che vivono di vita propria ma anche presagivano
fin dal loro apparire esigevano il proseguimento di un racconto che non
era finito. Il tempo della scrittura ora copre un arco di dieci anni ma
Damiani viene da più lontano da un tempo bambino dove le parole gioiose e
dolorose vogliono sempre chiamare le cose con il loro nome e osano
accendersi con il lume di ciò che nominano. Ma non lasciamoci ingannare:
la dolcezza di questo libro è aspra, la leggerezza della scrittura è
sorvegliata, la parola è incantata non per scavare nella fiaba o nel
passato ma perché il poeta vorrebbe riscoprire le cose che non ha mai
visto.
Da "LA MINIERA" E adesso
tutti e due siamo distesi sul letto, io scrivo, tu ti stiri e
dormi. Quell'uccellino l'hai straziato finché poi è morto. Eppure le
tue forme sono belle, ora sei in pace, sembri quieta, come il mare
quando è quieto, ma il giorno dopo s'alzano i cavalloni e tutto
distruggono dove passano. Vedo una donna che io ho straziato. Entro
in un giardino, ci sono are sparse, la luce filtra dai rami e colpisce
spigoli d'erba appena nata verde. Tu mi sei accanto, dietro di noi è
un mare Che luccica azzurro. Sembriamo quieti. Chiunque tu sia,
m'è impossibile non starti accanto, vorrei morire vicino al tuo
corpo, andando insieme senza sapere che mi sei accanto e non
possiamo separarci.
Giovanni Mariotti, E in fondo
alla miniera c'è Orazio, "Corriere della Sera", 22 settembre
1997
"Che le parole non diano
nell'occhio, che non si getti fumo nell'occhio, é l'arte. Che l'artificio
sia celato, che sia celata l'arte. Che l'opera sia anch'essa, come è,
natura. Che la poesia sembri facile. Come acqua che scorre. Petrarca la
chiamava: "Difficile facilità". Queste righe, che ho appena trascritto,
appartengono a un saggio di Claudio Damiani in margine a un'edizione de
"L'arte poetica" di Orazio. Claudio Damiani ha quarant'anni ed era
conosciuto sino ad oggi per due plaquettes di poche pagine; ora esce,
presso l'editore Fazi, la sua prima raccolta di poesie sufficientemente
vasta: "La miniera". Basta aprire a caso "La miniera" e subito si capisce
cosa intendeva Damiani quando, citando Petrarca, parlava di "difficile
facilità". O quando evocava un insegnamento di Orazio: componi "un
discorso poetico con parole dell'uso comune, tale che ciascuno si illude
di poter fare lo stesso e molto studi e si affanni invano alla prova:
tanto può l'ordine e la connessione delle parole, tanto esse acquistano di
decoro dal quotidiano linguaggio". Non mi dispiacerebbe essere un
critico di poesia per poter dire - autorevolmente - che l'apparizione de
"La miniera" é uno dei pochi avvenimenti importanti. E invece posso
soltanto dire, da lettore sporadico, che la poesia sembra ritrovare con
Damiani un sapore di tempo perduto. Quello che colpisce é la
consapevolezza critica che Damiani ha della sua novità. Dice Damiani (
cito ancora dal saggio su Orazio): "Ricordo che io, ragazzo, quando
dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito
dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua, e le parole
dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete". E a Orazio e a Petrarca
Damiani intende riallacciarsi, aldilà dell'alchimista Baudelaire, "padre
della poesia moderna". Per realizzare un simile proposito, occorre "un
poeta non piccolo", per di più anche con un understatement che non può
ingannare nessuno, come Damiani definisce se stesso. L'autore de "La
miniera" sembra davvero scrivere e poetare al di là del confine che chiude
un'epoca - e l'epoca é , naturalmente, il Novecento, la Modernità. Ma
proprio per questo "oltre" da cui parla, la sua voce ha un'autorità che
supera i confini della letteratura; senza essere per questo meno poeta,
Damiani ci appare, in tutta naturalezza, come un giovane e segreto
Maestro; qualcuno che indica una Via. Ho scritto Via con la V maiuscola,
come se avessi parlato di Gesù e di Laotze. In realtà la Via di Damiani é
una stradina: più precisamente, la stradina che da Percile porta al
piccolo lago di Fraturno, nel cuore di quell'antico paesaggio sabino che é
al centro di tante poesie de "La miniera" ( di quasi tutte): "Stradina, il
tuo pensiero é lucido, la tua bellezza é nuova,/ la tua età é senza fine,
esistevi / già prima di essere concepita;;;". Con queste stesse parole si
sarebbe tentati di definire la poesia di Claudio Damiani.
Ermanno Paccagnini, ll fervore
degli editori e la risposta degli autori, da Viviani a Conte, Mussapi e
Damiani Non disperiamo, la salvezza è dietro l'angolo. Parola degli
amici poeti, "Famiglia Cristiana", 3 settembre 1997
S'e è molto discusso della
reale incidenza sul consumo di poesia provocato dal fenomeno mondadoriano
dei Miti Poesia. Una ricaduta positiva sul consumo di versi deve esserci
comunque stata se la stessa Mondatori ha da un lato dedicato proprio alla
poesia del Novecento una serie negli Oscar inaugurata con Marina Cvetaeva
('Dopo la Russia'), Elio Pagliarani (Romanzi inversi) e Williams Carlos
Williams ('Paterson') e dall'altro ha intensificato la presenza di titoli
nella prestigiosa collana del Nuovo Specchio proponendo di recente 'La
Polvere e il fuoco di Roberto Mussapi' , 'Una comunità degli animi di
Cesare Viviani' e 'Canti d'oriente e d'occidente' di Giuseppe Conte Non
mancano altre spie del fenomeno come l'iniziativa Garzanti mirata a un
pubblico scolastico con volumi antologici di suoi poeti (Clemente Rebora e
Giorgio Caproni, i primi due), e pertanto corredata di apparati di
lettura; o la decisione della giovane ma agguerrita Fazi di dedicare ai
versi una sezione della collana Le Terre inaugurandola con 'La miniera' un
volume, in cui Claudio Damiani raccoglie la sua produzione poetica dal
1984 a oggi. Un'offerta in cui è inoltre ravvisabile un aspetto comune se
si esclude il volume di Viviani opera poeticamente compatta nel suo
procedere per schegge di emozioni attraverso "improvvise fioriture" di un
"dolore cifrato" che non spegne l'"indomabile sguardo" della
Speranza. A una immediata comunicatività punta invece 'La miniera' di
Damiani, un "romanzo in versi" con toni di sapore classico graziano in cui
il ricordo ripercorre l'iniziazione a cose, animali e persone. La
dimensione lirica del ricordo si ripropone pure nella prima parte del
libro di Mussapi che lascia poi lo spazio (con esiti non sempre
altrettanto felici) alla lettura del reale attraverso "la pupilla immersa
nel tempo quotidiano". Diverso invece il libro di Conte che soprattutto
nella prima e ultima parte tocca livelli stilistici notevoli: orientale,
la prima, coi Canti di ' Ysuf Abdel Nur' i cui distici da dizione
salmodica cantano il tema della schiavitù amorosa; dolorosamente
occidentale l'ultima: 'Il canto irlandese' (In memoria Bobby Sands):
commovente ballata in terzine sui momenti conclusivi del militante
irlandese lasciatosi morire di fame nel carcere inglese di Maze.
Enzo Siciliano, Con Orazio
nella miniera, "L'Espresso", 14 agosto 1997
Sulla soglia del suo "La
miniera" Claudio Damiani ha collocato una prosa di diario che si conclude
con una versione dei bellissimi e indimenticabili versi di Orazio dedicati
alla Fonte Bandusia. La scelta non é casuale. E' una scelta di poetica, o
di tono musicale e contenuto. Damiani ha inventato per sè una modulazione
tematica che vuole essere di riparo o uno scudo contro l'esistenza
metropolitana, feroce, seriale, sadica; di questa invenzione, Orazio, col
suo fare discorsivo, ma pure con la sua indubbia elezione stilistica, é il
nume tutelare. "Aria intorno alla mia casa,/ cielo azzurro lucente,/
eucalipti che frusciano nel vento,/ contadini che camminano, poveri,/con i
pantaloni larghi,/impiegati che aprono un fazzoletto/ con pane, pecorino,
cipolla...". E' l'immagine di un'antica Italia rurale mai morta che
Damiani disegna con nitore e trasparenza di linguaggio; e l'affida al
ritmo di un canto sommesso, un canto che in qualche modo cerca di
ricalcare il solfeggio piano dell' "epistola" oraziana. Non v'é dubbio
che in tutto questo affiori un margine, o una misura, di maniera
neoclassica, ma assai ben simulata e, nei momenti migliori, dissolta da un
reale pathos esistenziale, o dall'esigenza di mettere in chiaro la pena,
il turbamento che aggrediscono un io amante solo di azzardi
interiori. "Ripenso adesso a come amai interamente/ quand'ero ragazzo,
/ e a come ero sicuro che il mio amore era un angelo, / a come anch'io ero
un angelo, / a come eravamo uguali/ (ma lei era più uguale di me) /.../Con
tutto il cuore del nostro amore ci innamoriamo/ come dei bambini che non
conoscono il mondo / e interamente moriamo". Il rischio di questa poesia é
di scivolare nell'eloquente, proprio per salvarsi dal torpore della
maniera: "Per quanto la massa possa crescere / ci sarà sempre spazio per
la solitudine, / per l'uomo che abbraccia da un solo punto le cose, / e
capisce che solo la gentilezza c'é data / e che la vita vale viverla / per
essere gentili...". Può allora accadere che la tensione emotiva dei versi
si faccia sterile, fragile la capacità trasfigurante; e tenue il riparo di
un paesaggio amico, di una casa, dell'amore.
Ermanno Krumm, La miniera, "Il
Foglio", 1 agosto 1997
La miniera è prima di tutto un
villaggio ai piedi del Gargano, dove l'autore è nato ma è altresì il luogo
delle profondità romantiche, il recesso cui l' "io" deve accedere
attraverso una strada sotterranea, uno scavo perché alla fine giunga alla
nuova conoscenza e con essa alla poesia. Come in un romanzo di formazione,
il percorso è anche la ricostruzione di una genealogia, di una preistoria.
Trattandosi di un lavoro di più di dieci anni (le cui prime sezioni, qui
riprese, erano già state pubblicate) si ha insieme la rivelazione di un
autore e, come in controluce, la percezione di una storia, con fasi e
scansioni interne. La geografia e il paesaggio soccorrono: poiché, come
segnala in nota l'autore, sono sempre centrali e individuatissimi; dalla
Sabina di Fraturno all'Elba, isola natale del padre minatore. Le prime
serie tengono a bada la materia autobiografica con una sorta di
ripetitività insistita e grazie all'uso di un tono narrativo del tipo di
quello sperimentato, in altri tempi, dal fondatore del Gruppo 63 Edoardo
Sanguineti, cui assomiglia per un certo modo di riportare il discorso
diretto, con un ricco commento sottovoce, tra parentesi. Ma lo scopo, la
direzione della scrittura sono del tutto diversi. L'urgenza delle voci del
mondo esterno e del sogno, così forti in Sanguineti, sono qui riportate
alla concreta affettività del poeta, alla sua compagna, a certe bestie
(l'ippopotamo, il gatto) e a un mondo incantato, quasi fiabesco che fa da
sfondo. C'è addirittura la personificazione di una stradina cui la poesia
si rivolge con tenere parole. Ma non per questo la visione è meno nitida.
I grandi modelli latini si incontrano con la dilatazione visiva dei lirici
inglesi dei laghi: Orazio e la fons Bandusiae, Virgilio e la tradizione
bucolica tornano con gli occhi del giovane Wordsworth del "Prelude".
L'ultima sezione, come attraverso un lungo cammino di riappropriazione, si
abbandona, talvolta senza difese, alla commozione legata soprattutto alla
figura paterna. E se qualche poesia sembra un po' in presa diretta,
intervengono subito luoghi e vicende a filtrare l'emozione, ridando ai
testi tutta la loro limpida efficacia. Ecco "Sul monte bello", ecco "La
casa di Filemone e Bauci": non arriva mai nessuno e sia ha la sensazione
"che tutto sia distrutto / e tutto sia intero, perfetto.
Gabriella Sica, La
miniera, "La Stampa - Tuttolibri", 24 luglio 1997
È una "miniera" viva attiva la
poesia di questo scorcio di secondo millennio che vene sotterranee mettono
in contatto vitale con la "miniera" ricca e preziosa della poesia
latina. Anche di questo e di uno scavare nella nostra archeologia
privata e mitica ci parla la poesia di Claudio Damiani con 'La miniera'
appena uscito presso l'editore Fazi. Una poesia che è molto fluida e
libera mai costretta metrica mente ma sempre semplice e discorsiva ; una
poesia che non è astratta e fredda ma sempre morale. Tre sono le tappe
di questo cammino come tre sono i libi di cui i primi due già pubblicati
del volume che raccogli l'intera produzione poetica di Damiani, dall'84 ad
oggi. In 'Fraturno' è il ritrovamento della natura cancellata dai
moderni un luogo di quiete dove alberi animali e acque vivono nella
interezza. Ne 'La mia casa' gli elementi della natura sono esseri
interi sono proprio persone che pensano, soffrono e cercano come le strade
o le case. Nel terzo e nuovo libro, 'La miniera' l'Elba è l'isola
mineraria dell'infanzia dove cercare anche Ulisse, Elena o Diana, che non
sono più miti ma persone. Ecco un bel libro di poesia che non si può
non condividere se si è per una letteratura della memoria che vada contro
le poetiche di oggi fondate soltanto sull'urlo la scissione e la
ferita.
Mario Bernardi Guardi,
Giovannini e Damiani: l'avventura di far poesia, "Il Tempo", 7 giugno
1997
Ma in mezzo a tanta
"spazzatura" letteraria, cinematografica, musicale, giornalistica,
televisiva, c'è ancora posto per la poesia? Tra i mille sorriseti di
compatimento che vediamo comparire sulle boccucce dei miscredenti noi
diciamo di sì . E azzardiamo due suggerimenti che non riguardano i soliti
"classici", bensì due poeti "giovani" se chi ha 40 o 50 anni si merita
oggi di essere accolto in quest'affollato schieramento. Il primo è Claudio
Damiani che raccoglie dieci anni di poesia "pura" ingenua restituita a una
innocenza infantile come se il "fanciullino" pascoliano ritrovati inattesi
spazi di libertà vi si buttasse dentro senza alcun rossore né desiderio di
diventare "grande"; l'altro è Sandro Giovannini da anni animatore della
cultura di Destra inventore di circoli letterari e di scuole poetiche
avanguardista di mille esperimenti e di mille battaglie che consegna a una
pregevole edizione amatoriale venti poesie giocate su tastiere
sperimentali oppure tramate di suggestioni e messaggi per tutti quelli che
hanno cara l'avventura (e la sfida) della Tradizione. Claudio Damiani
"La miniera", Fazi pp. 153 L. 25.000; Sandro Giovannini, "Il piano
inclinato" Heliopolis Edizioni (Piazza Garibaldi 11-61100 Pesaro), pp.60
L. 50.000 (edizione con copertina in pergamena naturale dipinta a
mano).
Tutti gli anni Romano Battaglia
alle soglie dell'estate "riapre" quell'intelligente "spazio di incontro e
confronto che è il caffè della Versiliana di Marina di Pietrasanta e
pubblica un nuovo libro destinato al successo. Chi non ama queste storie
di ritrovata armonia tra uomo e natura; di segrete corrispondenze tra il
sole, il mare , il cielo; di arcane rivelazioni affidate alla bocca dei
"poveri di spirito" storce il naso e magari va a stilare una recensione
benedicente per l'ultima fatica "pulp". Eppure con il suo evangelico ed
umanitario rigoglio di affetti (in questa ultima storia una giovane cieca
riacquista la vista e dal quel momento "vede" immagini che sono
rivelazioni fino a un mistico "incontro" con San Francisco), battaglia
propone un suo "linguaggio" capace di forza persuasiva o per lo meno di
consolazione e di rifondazione di valori. Non è tutto e forse non è neppur
tanto: ma di fronte al nichilismo stracciarolo non è nemmeno
poco. Romano Battaglia, "Con i tuoi occhi", Rizzoli, pp. 135. L.
22.000.
Giovanna Sicari, La miniera,
"Galleria", n. 3, settembre-dicembre 1997
Quasi sempre il percorso della
poesia nella ricerca della nostra esistenza ~ mimesi iniziatica, adesione
a una geografia spirituale e psicologica che porta ad aderire al miracolo
di una parola permeata di tradizione e di esattezza biografica, di
assilli, di luoghi e di presenze. Si cerca di superare un tormento, di
vincere l'isolamento del cuore e della mente, di ricreare con tutte le
forze una comunità di amici fedeli, di imparare a vedere la luce in ogni
momento, fra le nostre più umili cose: rivedere, le cose nella luce
accecante della prima volta, quella folgorante degli aquiloni pascoliani,
quel tepore semplice e profondo dello sguardo che vede e già ricorda, già
fissa l'attimo visionario dei bambini. È questa la direzione del libro di
Claudio Damiani, "La miniera", volume che raccoglie testi scritti
nell'arco di dieci anni. Romanzo sentimentale, visione primigenia
dell'unico mondo che ricompone il sogno velato, il nostro amato tempo, in
scacco al nichiismo, alla rinuncia, alle teorie del negativo e alle sue
infinite rielaborazioni. Il tempo inconfondibile, cardiaco, olfattivo,
sensoriale della nostra esperienza sulla terra. Accettazione di un normale
passaggio, accettazione e gratitudine, ingenuità: "Ripenso adesso a come
amai interamente / quand'ero ragazzo, (.1 E adesso non dico: tutto
questo è falso / perché la vita è diversa, la vita mi ha cambiato; /
adesso invece dico: era tutto vero / nasciamo angeli e interamente amiamo,
/ con tutto il cuore del nostro amore ci innamoriamo / come dei bambini
che non conoscono il mondo / e interamente moriamo". E vero: la vita
con le sue degradanti brutture non può toglierci quel nucleo intero di
necessarie meraviglie; non può, nel profondo, mutare le nostre condizioni
di esseri nudi e poveri, ma sempre pronti a riemergere nel flusso della
bellezza, del suo perenne movimento incantato. Damiani petrarchesco?
Amante e amato, instancabile traduttore di poeti latini, immerso in un
mondo bucolico e introvabile? Possiamo dire amante e amato dalla
poesia, sua fede incrollabile, quella poesia che dà spazio all'umano, lago
d'amore, accanto ai volti cari. Fraturno, un piccolo lago fra i monti
della Sabina: 'Ora dorme su un fianco il piccolo lago / e respira piano /
tu l'hai veduto / e sei tornata a casa / camminando al ritorno lo vedevi
ancora / a casa la sua immagine durava nei tuoi pensieri".
Francesco Vinci, La miniera,
"Poesia '97", a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 1998
Una lingua che confida
unicamente nella sua autosufficienza è il punto di forza - e al contempo
il limite più tangibile - della poesia di Claudio Damiani, che ne La
miniera raccoglie un decennio di produzione in versi, da Fraturno (1987) a
La mia casa (1994). La seconda di copertina ci suggerisce laconicamente
che per l'autore di questa silloge (<la bellezza è comunque di questo
mondo". E in effetti è questo, e non un mondo altro, quello cui Damiani si
richiama per certificare i suoi sprazzi di esistenza febbrile - sullo
sfondo naturale dei luoghi dell'infanzia - fotografati da una parola nuda
e disarmata, sommessamente gioiosa, quasi sempre pronunciata con
discrezione. Sentieri, giardini, laghetti e persone abitano pacificamente
il dettato, vagamente improntato a una accennata maniera arcadica. Il
presunto pascolismo di questi versi (appena al di qua dell'elegia) è
comunque una cifra del tutto apparente o casuale: qui lo sguardo infantile
non mette a fuoco la magia sotterranea tra le cose, ma le cose stesse nel
loro manifestarsi quotidiano: nel loro caricarsi di verità e contingenza:
"E adesso non dico: tutto questo è falso / perché la vita è diversa, la
vita mi ha cambiato; I adesso invece dico: era tutto vero". La scelta
rinunciataria del1'~cantiletterarietà" non nasce dunque da un'ansia di
catarsi (che pure talvolta traspare), ma dalla chiara volontà di
ripristinare una possibile comunicazione positiva con questo mondo. La
voce schietta e imperturbabile di Damiani è tuttavia minacciata dalla
sconcertante immediatezza di una lingua poetica troppo piegata
all'evidenza del segno diaristico e descrittivo - che un più rigoroso
labor limae avrebbe potuto tenere sotto controllo, per evitare il rischio
dell'ovvietà e dell'eccessiva epurazione.
Roberto Galaverni, Claudio
Damiani. La bianca miniera della poesia, "Nuovi Argomenti", n.1/2, Quinta
serie, gennaio - giugno 1998
Nel panorama della poesia
italiana degli ultimi vent'anni, la lirica di Claudio Damiani rappresenta
senza dubbio un elemento estremamente connotato dei paesaggio, quello in
cui più visibili e continue si danno le caratteristiche di semplicità e di
nitore che per una consuetudine ormai invalsa si è soliti rapportare a una
linea tutta anti-novecentesca della naturalezza e della claritas. La
linea, in sostanza, che si disegna tenendo insieme le risultanze altissime
di Saba, Bertolucci e Penna. E si tratterà di una zona, come risulta dai
nomi ora richiamati, dove questa stessa naturalezza, o grazia (come non
ricordare quella celeberrima bertolucciana), costituisce un raggiungimento
stilistico che contrasta, a volte in modo addirittura perturbante, con le
inquietudini e le lacerazioni dei tessuto psicologico (e raggiungimento di
assai difficile definizione critica, come se trattenesse qualcosa di tanto
più ineffabile e sfuggente, quanto più in esso sembrerebbe levigarsi e
redimersi qualcosa come il dolore individuale). A ben guardare, tuttavia,
il discorso poetico di Damiani - che trova certo un riferimento sicuro nei
nomi dei tre poeti indicati, a cui è possibile aggiungere quello di
Caproni e affiancare la poesia cortese e gentilissima di un compagno di
strada dei tempi della rivista - "Braci" dico Beppe Salvia - si svolge in
modo compiuto a un livello che sembra derivare da un alientamento
particolarmente evidente, psicologico, razionale e tematico, ma più ancora
stilistico e, in senso lato, tonale, dello splendore di quello spazio
quasi miracolosamente discorsivo individuato dai grandi maestri. Rispetto
a questi Darni.ani si muove verso il basso, il suo è sermo humilis,
parola-che-si-fa radente ai propri oggetti, ma nel convincimento che, per
una sorta di capovolgimento morale e qualitativo, proprio nell'orizzonte
tutto terrestre e rugiadoso di un prato fiorito si dia la sola condizione
per incontrare qualcosa che soltanto con pudore si può chiamare felicità.
Da qui, come nella retina di un San Francesco a cui sia stata sottratta la
possibilità di un rispecchiamento celeste del creato, l'abbassamento e
l'esultanza, la semplicità come conforto e come gioia, come integrità e
verità delle cose: "subito apprendi / che tutto è vero, ogni cosa che
vedi / è vera, e svolge la vita nel tempo / e è intera". Di qui, anche, la
particolare mobilità, il cantato cantilenante, se mi è permesso, della
lassa di Damiani, che procede per iterazioni variate, ossia per una
felicissima modulazione, delle ripetizioni, a determinare una specie di
narrazione aperta alle sorprese, alle cose che si offrono allo sguardo una
dopo l'altra, ma sempre attraverso un legato ritmico e sonoro che sembra
equivalere a una forma di rispetto, di riconoscimento dell'altro, di ogni
altro, nella sua integrità: "Tu accarezzavi i campi / e baciavi le zolle
tenere. / Tu baciavi sulle case i tetti / che erano rimaste sole. / Tu
accoglievi nel tuo seno le volpi / e tutti quelli che erano rimasti. / Tu
portavi la notte azzurra / come ogni notte ancora sopra i tetti, / tu
portavi la mattina bianca / alla finestra della mia stanza". E' la
lingua dei fanciullino, si potrebbe dire, con quella cadenza di dolci
inciampi e di spostamenti improvvisi che equivalgono ad altrettanti indugi
amorosi e a nuove passioni: ecco una cosa, poi ancora lei, quindi subito,
con la stesso stupore, eccone un'altra, e così via. Non si tratterà
tuttavia della profonda e insondabile psicologia linguistica pascoliana,
insieme impressionistica e simbolica, quanto di una lingua di gioia, o
almeno di aspirazione ad essa. La poesia di Damiani è cantico, vive fuori
dal dolore, anche quando è più accorata e sollecita; vuole essere diretta,
fraterna e anzi, ancor più, materna, e così celebrare l'amicizia e
l'esistenza delle cose amate. Così Pascoli, quel Pascoli alla cui poetica
Damiani si è più volte mostrato molto sensibile, andrà avvertito piuttosto
in un movimento originario, ossia per la figura, che nel poeta di San
Mauro è però tutta difensiva, dei nido. La lirica di Damiani nasce infatti
da una selezione davvero radicale delle cosiddette occasioni poetiche, che
sono tutte riconducibili alla almeno apparente determinatezza di un luogo
e dunque alla certezza di un preciso paesaggio affettivo e sentimentale e
alla trama delle sue corrispondenze interiori. Da questo punto di vista la
poesia nasce soltanto attraverso un'operazione che è al contempo di
astrazione e di individuazione radicale; come se la visione dei mondo di
Damiani fosse rigidamente bipartita e come se la parola poetica si
appoggiasse esclusivamente su uno dei due rami. Va però aggiunto che la
censura tematica e psicologica si rovescia in una altrimenti impossibile
disponibilità, non soltanto sensibile (ben più autenticamente di altre
sacerdotali celebrazioni poetiche), e dunque in un'etica della
comprensione e della fraternità. Per questo, come detto, una volta
acquisito, questo spazio è tutto estrovertito e luminoso, di nitidissima
apertura emotiva, senza risonanze di offesa, o meglio ancora senza
ambiguità semantiche; il buio lo si è lasciato fuori, anche dal
linguaggio, e quando insidia tutt'attorno è lui, ha il suo nome, è proprio
il buio: "Mutolo mugola solo / nel piccolo orto deserto solingo... / (E
già il giardino le foglie ricoprono, / già lento scende dai gelidi monti /
l'Autunno triste col querulo flauto)". Il luogo, dunque. 1 primi due
libretti di Darniani, Fraturno e La mia casa, usciti rispettivamente nel
1987 e nel 1994 presso due piccoli editori e ora opportunamente ristampati
come i primi due tempi della nuova raccolta eponima La miniera (Fazi,
1997), facevano infatti quasi esclusivo riferimento agli amatissimi luoghi
oraziani tra i monti della Sabina (dico amatissimi, ma in realtà necessari
alla vita di questo poeta come il respiro stesso), il fratello lago,
Fraturno, i torrenti Licenza e Aniene, la fons Bandusia, il paese Percile,
le rovine della villa stessa di Orazio e le altre rovine dei vecchio, alto
borgo medioevale di Morella. E con essi i nomi di pochi alberi - il melo,
il nespolo, i "cipressetti", gli eucalipti, i biancospini -, di qualche
fioritura o di qualche raccolto, di "una piantina grassa azzurra", di
alcuni animali, come Mutolo, "il piccolo gatto nero", gli uccellini, il
"caro piccolo anatroccolo", le mucche, le lucertole, i girini. A tutti
questi luoghi, al mondo della natura, agli esseri animati, Damiani sì
avvicina con un riguardo davvero straordinario, ogni volta ritrovando e
insieme custodendo quella confidenza dei sentimento a cui non si può dare
che il nome di amicizia, dal momento che, dentro allo spazio chiuso della
Sabina, non si dà l'incontro con il nuovo, quanto il riconoscimento - ora
euforico, ora come miracolato rispetto all'oscurità e al silenzio
circostanti - con i volti già noti e amati, in un incontro con
l'autenticità che sembra avere per il poeta il valore di una almeno
momentanea salvazione: "Vorrei restare qui tra le lucertoline. / Voi
tornate a casa, / io vorrei restare qui. / Non vorrei, ora che il sole sta
tramontando, / come sempre, alzarmi e tornare". Ma è importante
sottolineare come nel movimento di approssimazione e quindi nel contatto
con il mondo circostante, la conoscenza della verità sia in Damiani
indistinguibile dal superamento della solitudine in una nuova, altra,
fraterna comunità. Proprio la solitudine infatti è il vero nemico,
l'oscurità temuta da questo poeta; ed è proprio tale minaccia sostanziale
a determinare il suo discorso poetico come scarto propositivo e non solo
come medicamentum. In questa prospettiva il francescanesimo, da piùparti e
opportunarnente richiamato per Damiani, viene doppiato in modo decisivo da
una componente riflessa e classica, anche al modo oraziano, per cui la
comprensione umana diviene la misura massima della maturità. La semplicità
è l'acquisto più grande, è la gioia di aver compreso e di amare il proprio
destino: "Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello
che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è
vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un
sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era
piano". E si tratta senz'altro, come detto, di un colloquio non con
cose ma con volti e con figure, da cui la frequentissima, si direbbe
necessaria antropomorfizzazione (si ricordi come sia un modo non inusuale
al Bertolucci delle prime raccolte poetiche) e i continui dialoghi.
Damiani ha sempre bisogno di un tu, anche se il suo avvicinamento a esso
avviene con la trepidazione protettiva di una madre. Così il "piccolo
noce" Albio: "e tu sei così sano / invece e lucido e bello e pulito /
Albio e stai in piedi nel tuo dolce angolo / nella luce"; i papaveri di
Primavera (dedicata all'amico Salvia, il suo titolo in Fraturno era Per il
"Calendario"), che "la mente distolgono / dalle faccende loro e al mio
tesoro / solo indirizzano i capi e gli steli"; il sentiero: "Il sentiero
sale fiorito, / sorridente di biancospini bianchi. / Come mi vede è
contento / e vuole giocare girando le curve. / Ora gioca a nascondersi /
perché scompare sotto i miei occhi"; il lago: "Ora dorme su un fianco il
piccolo lago / e respira piano"; o ancora tutto il mondo intorno a
Fraturno, nella sua fremente e solidale, armonica animazione: "Non
svegliate il laghetto che dorme, / pioppi, con le foglioline dei rami, /
vento, non soffiare così forte, / freddo, non essere così rigido, / vedi
che non ha coperte! / Nuvole, trattenete l'acqua / passando sopra di lui,
/ stelle, luccicate pure, / guardatelo ma non svegliatelo. / Non
svegliatelo, non lo svegliate, / è solo, non ha nessuno~. Caratteristica
di queste aggraziatissime figurazioni antropomorfe è un'animazione tutta
discorsiva, una vitalità che dal poeta viene riconosciuta all'esterno
anziché sviluppata a partire dalla propria attività, per cui la
descrizione è quasi sempre implicita, tanto che assai poco numerose sono
le diramazioni e gli approfondimenti attributivi e sempre con un valore
designativo ed essenziale. Ciò che si trova in Damiani non è la
descrizione, con la misura interpretativa dell'occhio che la scandisce,
quanto piuttosto un procedimento e più ancora un rituale che definirei di
nominazione. E ancora: non l'osservazione e il disegno degli elementi del
paesaggio amato, quanto l'accordo e la prossimità di sentire che
consentono -il loro riconoscimento immediato, il contatto e il dialogo; e
in tal modo, di nuovo, il superamento della solitudine, dell'offesa
dell'abbandono. Non poche caratteristiche di questa poesia si possono
ricondurre a tale necessità di individuazione, che equivale poi - certo
soltanto all'interno dello spazio circoscritto dei recinto che la rende
possibile e la garantisce - a un sentimento dell'integrità e
dell'uguaglianza di ogni essere, con una sorta di dolce e festosa
magnanimità, tanto che Emanuele Trevi ha potuto giustamente parlare di un
"mondo che sembra avere accolto in sé il tempo della giustizia". In tal
senso, la componente stilistica più vistosa e continua è data dai
procedimenti di coordinazione, come se il mondo non potesse che essere
detto attraverso la parificazione dei suoi abitatori. In non pochi casi,
in modo apparentemente meno originale, si inc ontra allora l'asindeto, più
spesso nella forma dell'elencazione ellittica, che qui però ha una valenza
tutta positiva ed euforica, delicatamente celebrativa, che la inclina in
una direzione anti-novecentesca; ed è un uso di tutto Damiani, a rilevare,
anche per questo verso, una preferenza per la sostantivazione
individualizzante, ma appunto priva di discriminazioni gerarchiche e
qualitative (basta pensare all'unica lassa senza predicato di Aria intorno
alla mia casa). Il più delle volte, tuttavia, il discorso procede
attraverso la coordinazione esplicita-.e più diffusamente il polisindeto,
che costituiscono davvero la misura più propria di Damiani, determinando
un canto semplice e cadenzato (a cui concorrono anche le tante iterazioni
lessicali e sintattiche), ma capace di riservare come una sequenza di
piccoli prodigi, come di chi camminando a ogni passo potesse stupire di un
nuovo e felice incontro. E si tratta di una meraviglia che può riguardare
i gesti più familiari, facendone una melodia appena trattenuta, come nel
pudore di avere sfiorato, proprio lui, il poeta, qualcosa di molto simile
alla gioia: "Dovevi spogliarti, e rnetterti nel letto / e appoggiare il
tuo capo sul cuscino / senza che io ti vedessi, / senza che io fossi
vicino a te. / E Liebe sentivi che sgrattava alla porta / e che uggiolava
e che guaiva, / senza abbaiare perché non doveva fare rumore, / e tu non
dovevi aprirgli, perché non voleva il padrone, / ma non riuscivi a non
aprirgli, ed ecco, alla fine, aprivi, / e lui entrava contento e saltava
nel tuo letto / e si addormentava subito. Più di ogni altra, tuttavia,
è la consuetudine con la figura della (casa che corrisponde poi a qualcosa
che è insieme fisico e psicologico, a una temperatura, a un tono prima di
tutto - a determinare quella trama affettiva che rappresenta l'atmosfera
tipica di questa poesia, vale a dire quella che dal tepore di un
pomeriggio di inizio autunno può passare alle luci radiose e ai suoni
della primavera. Ed è la casa così intesa, anzi, la sua casa, il luogo
autentico della poesia di Damiani (il possesso poi - per cui si pensi
all'importanza dei tanti possessivi o al titolo stesso della seconda
plaquette - non è affatto materiale, ma emotivo, di cuore vorrei dire; è
la garanzia di custodire un sentimento, la possibilità di rinnovare una
confidenza profonda). Per la casa, insomma, si ripete con un più di
evidenza e di accoramento quanto detto per lo spazio prediletto della
Sabina. Non poche tra le liriche più riuscite di Damiani si legano infatti
ad essa e in particolare Se fossi qui seduto e non avessi, che ritengo la
sua migliore in assoluto - è che non a caso è tale da offrire
perfettamente calibrata la disposizione emotiva e poetica a mio avviso più
efficace e toccante dei poeta romano. E questa si incontra quando
l'Arcadia con il suo idillio lieve riesce meno pacificata e lucente, ma
appare ancora turbata dalle increspature dell'ombra dell'alterità da cui è
riuscita a stento a sottrarsi e da cui sembra non potere comunque
preservare a lungo la propria fragilità. Così sul filo della parola, che
procede chiara e sicura di trovare la propria felicità là dove sa esistere
lo spazio accordato dei sentimento ("Se fossi qui seduto e non avessi /
tutti questi pensieri d'intorno / io volerei tra gli eucalipti fruscianti
/ della mia casa natale"), si instaura come un tremito una zona inquieta;
mentre sui luoghi e sugli esseri amati, si diffonde una luce più mossa e
più varia, il riflesso, anche, dei buio, per cui davvero il colloquio con
le cose può darsi soltanto a partire dal filo sensibilissimo dei desiderio
e dunque nei termini appena sospesi di una visione---. "2 questo il tempo
che la primavera comincia / o forse è autunno e il cielo è limpido
azzurro. / gli uccellini fanno dei piccoli voli d'intorno / e io mi siedo
sotto quest'albero". Un vedere che a partire dalla indeterminatezza
temporale si fa poi subito nitidissimo e certo, almeno relativamente ai
propri punti di riferimento, ma tuttavia sempre con un senso misto di
trepidazione e di gioia, LIUOI %do la dolcezza non può ancora essere
quella dei riposo in cui si troverebbero insieme la pace delle cose e dei
cuore. Allora è come se la gioia delle immagini si sostenesse su un
respiro ancora un po' ansioso: "e non vorrei che la sera venisse, / non
vorrei sentire il suono del calesse / del lattaio che viene dalla lontana
strada. / Ma se la sera venisse / vorrei che fosse subito notte, / vorrei
vedere le stelle luminose nel cielo, / vorrei sentire il respiro degli
alberi vicino alla mia casa, / vorrei sentire che la mia casa / non è
triste, ma è lieta". Rispetto alle due prime raccolte, La miniera appare
temaficamente più mossa, in quanto la centralità figurativa, finora
pressoché assoluta, subisce una dislocazione sia nello spazio che nel
tempo, come se Damiani provasse ad allargare i confini del proprio mondo
poetico per saggiarne la consistenza. Ma non è la sua poesia, o
direttamente la sua storia di poeta ad essere messa alla prova; piuttosto
l'interrogazione riguarda la realtà del sentimento che l'ha determinata e
che ancora la sostiene e la rende necessaria. Fin dall'inizio è
l'allontanamento verso l'infanzia passata in un villaggio minerario dei
Gargano e raccontata tra e altre nella bellissima Mi rivedo nell'officina,
con la sua serie di emozionanti iterazioni: "C'era un'italia povera e il
deserto era riarso e i bambini andavano a piedi nudi per le strade. / Se
potessi cercarti per poterti ritrovare, / per poterti dopo tante ricerche,
/ dopo tanto cercare / come dopo una guerra / finalmente
riabbracciare". Ma il tempo si trova anche nel passato dei paesaggio
appartato della Sabina, come nella sezione fiabesca Il bambino e la
principessa, o nella lontananza indeterminata e favolosa dell'altra
sezione La casa di Filemone e Bauci, o ancora nelle poesie di suggestione
mitologica della Vecchiaia di Ulisse, dove però l'incanto che è del
miglior Damiani stenta a crearsi, come se la necessità di trasfigurare il
presente nella favola antica portasse la strofa a irrigidirsi. La
componente logica, la riflessione, quando non si diano nella loro
risultante, ossia come acquisizione, come riconoscimento e amore di ciò
che è, interrompono immediatamente l'unità tonale della rappresentazione,
incrinandone la leggerissima sospensione: "Ho tanta scienza dentro di me /
eppure devo morire. / Vorrei scendere sotto la terra, / ma non per sapere
della vita, come un tempo, / ma per sapere della morte". Ed è appunto
quello dei tempo il motivo che attraversa e unifica La miniera (e Il tempo
è anche il titolo di una sua breve sezione), affrontato proprio là dove
può significare la consumazione e la decadenza de mondo di affetti
concordi necessario alla vita e, in primo luogo, all'esi stenza della
poesia. Alla aggettivazione più consueta di Damiani ecco allora
affiancarsi la designazione del negativo, come se la cittadinanza poetica
fosse stata concessa anche al ramo finora escluso della sua visione dei
mondo. Ecco allora che ai gia noti ma sempre incantevoli dolce, tenero,
silenzioso, tenue, chiaro, azzurro, lieto, mite, bello, si affiancano gli
apparentemente antitetici triste, solo, malato, diroccato, rotto,
devastato. Ma, in realtà - a significare ancora una volta come il tono più
autentico di Damiani possa darsi soltanto in termini di comprensione e
dunque di quiete e anche di saggezza -, quello che dovrebbe essere
l'affronto dei tempo vive invece come sentimento del tempo, e pertanto non
come offesa, ma come riconoscimento e ritrovata armonia. Così di nuovo, là
dove si stabilirà questa corrispondenza, la strofa potrà ritrovare il suo
più alto e accordatissimo respiro. Anche per questo verso, allora, si
rivela la componente classica e in particolare oraziana che è la
condizione dei canto e della lode della poesia di Damiani: "E adesso non
dico: tutto questo è falso / perché la vita è diversa, la vita mi ha
cambiato; / adesso invece dico: era tutto vero. / Nasciamo angeli e
interamente amiamo, / con tutto il cuore dei nostro amore ci innamoriamo /
come dei bambini che non conoscono il mondo / e interamente moriamo". Ciò
che importa, sembra dire il poeta, è ciò che si porta dentro, la passione
che si spende, quello che si tiene nel cuore e che forse può durare ed
essere ritrovato al di là di ogni mutamento. E' questo cuore il vero luogo
della poesia di Damiani, la sola casa della sua voce bianca, o anche, come
avrebbe detto Pascoli, della sua voce buona. Ed è un filo esilissimo,
fragile e prezioso; un filo dei sentimento, che si può custodire soltanto
con amore: "Chi ti conosce ti pensa e ti tiene nel suo cuore"
Gian Mario Villalta, La
miniera. La compostezza delle cose, "Tratti", n.49, autunno
1998
Questo libro di Damiani
raccoglie un lavoro poetico di oltre dieci anni, scandito nelle sillogi
Fra- turno (Abete, 1987), La via a Fraturno (in Secondo quaderno italiano
di poesia contemporanea, Guerini e Associati, 1992), e La mia casa
(Pegaso,1994), con una nuova, ampia e consistente presenza di
componimenti, contrassegnati dal titolo La miniera, sotto il quale viene
presentata l'intera opera. A tali rapide informazioni si può
aggiungere, altrettanto rapidamente, l'anno di nascita del poeta, il 1957,
a San Giovanni Rotondo (Foggia), il fatto che vive a Roma fin
dall'infanzia e che ha condiviso l'esperienza delle riviste "Braci" e
"Prato pagano". A questo punto, una volta fornite le coordinate minime
appena sufficienti ad individuare il poeta e il libro, si vorrebbe poter
dire a chi scorre queste righe: 'Ne riparliamo dopo che l'avrai letto";
oppure ci si vorrebbe rivolgere direttamente all'autore, per un lungo
colloquio. Non intendo sottrarmi così ai compiti descrittivi del
recensore, ma soltanto sottolineare una convinzione personale, che è
questa: una campionatura della pagina di Damiani, con citazioni parziali -
come si usa - ci offre la possibilità di fargli un grande torto, mentre,
d'altra parte, l'enunciazione degli effetti complessivi di lettura, e
anche delle perplessità, delle mancate consonanze, finisce per spostare il
ragionamento su un altro piano, ancora diverso: le domande che Damiani ci
invita a porre, le inquietudini che la sua quiete muove. Cosa
succederebbe a riportare da questo libro, ad apertura di pagina: "Ti
piaceva tanto, quella casina, tesoro, / ti piaceva tanto", oppure: "Begli
uccellini lieti / che sul ramo cantate/ col vostro dolce canto / il mio
amore svegliate", o ancora: "Tu fosti tanto cattiva con quell'uccellino
/ appena nato, caduto dal nido", cosa succederebbe nella testa di un
lettore che viene a conoscere Damiani in questo modo, per la prima volta?
Il problema inizia di qui: devo dire al lettore, e ne sono convinto, che -
qualunque sia l'effetto dei versi che ho citato - ogni poesia di Damiani,
e la raccolta nel suo insieme, lascia una profonda impressione di fermezza
compositiva, di circoscrivere un mondo meditato e autentico, e anche di
una provocazione non pretestuosa. I diminutivi, gli arcaismi nel lessico e
nella strutturazione del verso, le frequenti interrogazioni concorrono a
far confluire un'affettività intensa e stupita nella continuità di una
tradizione poetica, negando alla modernità quella oscura potenza di
annichilimento che tutto il Novecento le ha riconosciuto. Programmatici,
al riguardo, questi. versi: "Che bello che questo tempo / è come tutti gli
altri tempi, / che io scrivo poesie! come sempre sono state scritte". È
difficile, infatti, non riconoscere in queste parole una provocazione:
quanta retorica c'è, quanta ideologia, quanta distanza dalla comune
esperienza della tragicità della vita, nello spettacolo del nulla che
questo secolo si è ostinato a lnscenare? E il tragico non è forse nella
quiete delle cose che passano sulla terra, che non trovano verità in altro
che in questo passare? Non è un caso che Damiani guardi più a Orazio e ai
classici (attraverso la meditazione di Pascoli) che ai contemporanei. E
l'immediata, aperta luminosità di certe poesie sembra dargli ragione; una
ulteriore conferma proviene dal fatto che, pur con i frequenti pesi di
"poeticità" già messi in luce, la sua lingua suoni presente e comune. La
parte medita del volume, La miniera, ha momenti in cui scompare la
sensazione che il dettato obbedisca a una fin troppo scoperta volontà di
programma, per aprire spazi di riconquistata dicibilità. La mia
perplessità infatti - finalmente la dico - riguarda la diffusa percezione
che, insieme a tanti aspetti di una visione preformata del reale
immaginato, Damiani si sia dimenticato di interrogare il rapporto tra
poetica e poesia, e che la sua poetica, così compatta e priva di
esitazioni, risenta alla fine di un atteggiamento che vede rientrare per
la finestra ciò che aveva obbligato a uscire dalla porta. Per quanto -
devo ripeterlo - le poesie più recenti prospettino altre aperture, c'è il
rischio, insomma, dopo tanto e forse troppo disincanto, di un eccesso di
re-incanto programmato e tassativo. È una perplessità. E vorrei che
fosse veramente, apertamente intesa per tale. Di fatto, a questo libro si
crede senza sforzo, per quanto - altrettanto sinceramente - non si possa
fare a meno di provare in certi casi un senso di irritazione per certe
formule, forse troppo insistite. Occorre sottolineare, d'altra parte, che
nel dettato lineare e pulito di questa poesia, il tono è il dato più
potente, e certe formule svolgono la funzione di sostenerlo e rinnovarlo,
permettendo così lo svolgimento ditemi complessi e strutturati su più
piani.
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