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Recensioni a La miniera
(non sono ancora disponibili tutti i testi)

 


Mario Bernardi Guardi, Giovannini e Damiani: l'avventura di far poesia, "Il Tempo", 7 giugno 1997
Gabriella Sica, La miniera,  "La Stampa - Tuttolibri", 24 luglio 1997
Ermanno Krumm, La miniera, "Il Foglio", 1 agosto 1997
Enzo Siciliano, Con Orazio nella miniera, "L'Espresso", 14 agosto 1997

Elio Pecora, Quando l'amore cede al distacco e non alla perdita, "La Voce Repubblicana", 29 agosto 1997
Ermanno Paccagnini, ll fervore degli editori e la risposta degli autori, da Viviani a Conte, Mussapi e Damiani
Non disperiamo, la salvezza è dietro l'angolo. Parola degli amici poeti, "Famiglia Cristiana", 3 settembre   1997

Giovanni Mariotti, E in fondo alla miniera c'è Orazio, "Corriere della Sera", 22 settembre 1997
Umberto Fiori, La miniera, "Atelier", n.7, settembre 1997
Daniele Piccini, La miniera rompe con l'intimo Fraturno, "Letture", ottobre 1997
Stefano Crespi, Se appare il colore dell'indicibile, "Il Sole-24 Ore", 19 ottobre 1997
Giovanni Mariotti, Ci sono anche gli autori ornitorinchi, "Corriere della Sera", 26 ottobre 1997
Franco Loi, Chiara, dolce, fresca è la lingua, " Il Sole-24 Ore", 2 novembre 1997
Domenico Adriano, La miniera, "Avvenimenti", 26 novembre 1997
Bianca Garavelli, Da Bertolucci a Damiani, sperimentali e crepuscolari, "Avvenire", 13 dicembre 1997
Stefano Lecchini, E la poesia tornò a raccontare, "Gazzetta di Parma", 23 dicembre 1997
Giovanna Sicari, La miniera, "Galleria", n. 3, settembre-dicembre 1997
Daniele Piccini, I libri di un anno. Le uscite di poesia italiana del 1997, "Poesia", n. 113, gennaio 1998
Roberto Carvelli, Damiani, poesia dentro il tempo, "L'Adige", 19 gennaio 1998
Francesco Vinci, La miniera, "Poesia '97", a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 1998
Roberto Grandinetti, Ma Pascoli illumina il lato buio della storia, "Il Quotidiano", 1 maggio 1998
Roberto Galaverni, Claudio Damiani. La bianca miniera della poesia, "Nuovi Argomenti", n.1/2, Quinta serie, gennaio - giugno 1998
Pasquale Di Palmo, in "Il Golfo", n. 9-10, settembre-ottobre 1998
Gian Mario Villalta, La miniera. La compostezza delle cose, "Tratti", n.49, autunno 1998
Plinio Perilli, in Melodie della terra, Crocetti, Milano, 1998
Giancarlo Pontiggia, La miniera, "Poesia", n.131, settembre 1999
Roberto Galaverni, in Contemporary Italian Poets - Modern Poetry in Translation No. 15, King's College London, 1999

 

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Domenico Adriano, La miniera, "Avvenimenti", 26 novembre 1997

 

"Il sentiero sale fiorito / sorridente di biancospini bianchi / . Come mi vede è contento / e vuole giocare girando le curve" …"Cara strada / tu ti muovi lenta / e non vuoi arrivare subito"… "E la casa sta zitta chiusa / perché nessuno è più entrato. / Se ti vedesse aprirebbe le finestre / e correrebbe sulla via ad abbracciarti"…Diamo qui dei lacerti - e vorremmo citarlo tutto questo delicato libro di Claudio Damiani ( San Giovanni Rotondo, 1957 ) che si è voluto intitolare 'La miniera" e lega a sé due libri precedenti, 'Fraturno' e 'La mia casa' che vivono di vita propria ma anche presagivano fin dal loro apparire esigevano il proseguimento di un racconto che non era finito. Il tempo della scrittura ora copre un arco di dieci anni ma Damiani viene da più lontano da un tempo bambino dove le parole gioiose e dolorose vogliono sempre chiamare le cose con il loro nome e osano accendersi con il lume di ciò che nominano. Ma non lasciamoci ingannare: la dolcezza di questo libro è aspra, la leggerezza della scrittura è sorvegliata, la parola è incantata non per scavare nella fiaba o nel passato ma perché il poeta vorrebbe riscoprire le cose che non ha mai visto.

Da "LA MINIERA"
E adesso tutti e due siamo distesi sul letto,
io scrivo, tu ti stiri e dormi.
Quell'uccellino l'hai straziato finché poi è morto.
Eppure le tue forme sono belle,
ora sei in pace, sembri quieta,
come il mare quando è quieto,
ma il giorno dopo s'alzano i cavalloni e tutto distruggono dove passano.
Vedo una donna che io ho straziato.
Entro in un giardino, ci sono are sparse,
la luce filtra dai rami e colpisce spigoli
d'erba appena nata verde.
Tu mi sei accanto, dietro di noi è un mare
Che luccica azzurro.
Sembriamo quieti.
Chiunque tu sia, m'è impossibile non starti accanto,
vorrei morire vicino al tuo corpo,
andando insieme senza sapere che mi sei accanto
e non possiamo separarci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giovanni Mariotti, E in fondo alla miniera c'è Orazio, "Corriere della Sera", 22 settembre 1997

 

"Che le parole non diano nell'occhio, che non si getti fumo nell'occhio, é l'arte. Che l'artificio sia celato, che sia celata l'arte. Che l'opera sia anch'essa, come è, natura. Che la poesia sembri facile. Come acqua che scorre. Petrarca la chiamava: "Difficile facilità".
Queste righe, che ho appena trascritto, appartengono a un saggio di Claudio Damiani in margine a un'edizione de "L'arte poetica" di Orazio.
Claudio Damiani ha quarant'anni ed era conosciuto sino ad oggi per due plaquettes di poche pagine; ora esce, presso l'editore Fazi, la sua prima raccolta di poesie sufficientemente vasta: "La miniera". Basta aprire a caso "La miniera" e subito si capisce cosa intendeva Damiani quando, citando Petrarca, parlava di "difficile facilità". O quando evocava un insegnamento di Orazio: componi "un discorso poetico con parole dell'uso comune, tale che ciascuno si illude di poter fare lo stesso e molto studi e si affanni invano alla prova: tanto può l'ordine e la connessione delle parole, tanto esse acquistano di decoro dal quotidiano linguaggio".
Non mi dispiacerebbe essere un critico di poesia per poter dire - autorevolmente - che l'apparizione de "La miniera" é uno dei pochi avvenimenti importanti. E invece posso soltanto dire, da lettore sporadico, che la poesia sembra ritrovare con Damiani un sapore di tempo perduto. Quello che colpisce é la consapevolezza critica che Damiani ha della sua novità. Dice Damiani ( cito ancora dal saggio su Orazio): "Ricordo che io, ragazzo, quando dall'avanguardia che leggevo passai per caso a Petrarca, rimasi sbalordito dall'immediatezza e dall'attualità della sua lingua, e le parole dell'avanguardia mi sembravano vecchie, desuete". E a Orazio e a Petrarca Damiani intende riallacciarsi, aldilà dell'alchimista Baudelaire, "padre della poesia moderna". Per realizzare un simile proposito, occorre "un poeta non piccolo", per di più anche con un understatement che non può ingannare nessuno, come Damiani definisce se stesso.
L'autore de "La miniera" sembra davvero scrivere e poetare al di là del confine che chiude un'epoca - e l'epoca é , naturalmente, il Novecento, la Modernità. Ma proprio per questo "oltre" da cui parla, la sua voce ha un'autorità che supera i confini della letteratura; senza essere per questo meno poeta, Damiani ci appare, in tutta naturalezza, come un giovane e segreto Maestro; qualcuno che indica una Via. Ho scritto Via con la V maiuscola, come se avessi parlato di Gesù e di Laotze. In realtà la Via di Damiani é una stradina: più precisamente, la stradina che da Percile porta al piccolo lago di Fraturno, nel cuore di quell'antico paesaggio sabino che é al centro di tante poesie de "La miniera" ( di quasi tutte): "Stradina, il tuo pensiero é lucido, la tua bellezza é nuova,/ la tua età é senza fine, esistevi / già prima di essere concepita;;;". Con queste stesse parole si sarebbe tentati di definire la poesia di Claudio Damiani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ermanno Paccagnini, ll fervore degli editori e la risposta degli autori, da Viviani a Conte, Mussapi e Damiani
Non disperiamo, la salvezza è dietro l'angolo. Parola degli amici poeti, "Famiglia Cristiana", 3 settembre   1997

 

S'e è molto discusso della reale incidenza sul consumo di poesia provocato dal fenomeno mondadoriano dei Miti Poesia. Una ricaduta positiva sul consumo di versi deve esserci comunque stata se la stessa Mondatori ha da un lato dedicato proprio alla poesia del Novecento una serie negli Oscar inaugurata con Marina Cvetaeva ('Dopo la Russia'), Elio Pagliarani (Romanzi inversi) e Williams Carlos Williams ('Paterson') e dall'altro ha intensificato la presenza di titoli nella prestigiosa collana del Nuovo Specchio proponendo di recente 'La Polvere e il fuoco di Roberto Mussapi' , 'Una comunità degli animi di Cesare Viviani' e 'Canti d'oriente e d'occidente' di Giuseppe Conte
Non mancano altre spie del fenomeno come l'iniziativa Garzanti mirata a un pubblico scolastico con volumi antologici di suoi poeti (Clemente Rebora e Giorgio Caproni, i primi due), e pertanto corredata di apparati di lettura; o la decisione della giovane ma agguerrita Fazi di dedicare ai versi una sezione della collana Le Terre inaugurandola con 'La miniera' un volume, in cui Claudio Damiani raccoglie la sua produzione poetica dal 1984 a oggi. Un'offerta in cui è inoltre ravvisabile un aspetto comune se si esclude il volume di Viviani opera poeticamente compatta nel suo procedere per schegge di emozioni attraverso "improvvise fioriture" di un "dolore cifrato" che non spegne l'"indomabile sguardo" della Speranza.
A una immediata comunicatività punta invece 'La miniera' di Damiani, un "romanzo in versi" con toni di sapore classico graziano in cui il ricordo ripercorre l'iniziazione a cose, animali e persone. La dimensione lirica del ricordo si ripropone pure nella prima parte del libro di Mussapi che lascia poi lo spazio (con esiti non sempre altrettanto felici) alla lettura del reale attraverso "la pupilla immersa nel tempo quotidiano". Diverso invece il libro di Conte che soprattutto nella prima e ultima parte tocca livelli stilistici notevoli: orientale, la prima, coi Canti di ' Ysuf Abdel Nur' i cui distici da dizione salmodica cantano il tema della schiavitù amorosa; dolorosamente occidentale l'ultima: 'Il canto irlandese' (In memoria Bobby Sands): commovente ballata in terzine sui momenti conclusivi del militante irlandese lasciatosi morire di fame nel carcere inglese di Maze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Enzo Siciliano, Con Orazio nella miniera, "L'Espresso", 14 agosto 1997

 

Sulla soglia del suo "La miniera" Claudio Damiani ha collocato una prosa di diario che si conclude con una versione dei bellissimi e indimenticabili versi di Orazio dedicati alla Fonte Bandusia. La scelta non é casuale. E' una scelta di poetica, o di tono musicale e contenuto. Damiani ha inventato per sè una modulazione tematica che vuole essere di riparo o uno scudo contro l'esistenza metropolitana, feroce, seriale, sadica; di questa invenzione, Orazio, col suo fare discorsivo, ma pure con la sua indubbia elezione stilistica, é il nume tutelare.
"Aria intorno alla mia casa,/ cielo azzurro lucente,/ eucalipti che frusciano nel vento,/ contadini che camminano, poveri,/con i pantaloni larghi,/impiegati che aprono un fazzoletto/ con pane, pecorino, cipolla...". E' l'immagine di un'antica Italia rurale mai morta che Damiani disegna con nitore e trasparenza di linguaggio; e l'affida al ritmo di un canto sommesso, un canto che in qualche modo cerca di ricalcare il solfeggio piano dell' "epistola" oraziana.
Non v'é dubbio che in tutto questo affiori un margine, o una misura, di maniera neoclassica, ma assai ben simulata e, nei momenti migliori, dissolta da un reale pathos esistenziale, o dall'esigenza di mettere in chiaro la pena, il turbamento che aggrediscono un io amante solo di azzardi interiori.
"Ripenso adesso a come amai interamente/ quand'ero ragazzo, / e a come ero sicuro che il mio amore era un angelo, / a come anch'io ero un angelo, / a come eravamo uguali/ (ma lei era più uguale di me) /.../Con tutto il cuore del nostro amore ci innamoriamo/ come dei bambini che non conoscono il mondo / e interamente moriamo". Il rischio di questa poesia é di scivolare nell'eloquente, proprio per salvarsi dal torpore della maniera: "Per quanto la massa possa crescere / ci sarà sempre spazio per la solitudine, / per l'uomo che abbraccia da un solo punto le cose, / e capisce che solo la gentilezza c'é data / e che la vita vale viverla / per essere gentili...". Può allora accadere che la tensione emotiva dei versi si faccia sterile, fragile la capacità trasfigurante; e tenue il riparo di un paesaggio amico, di una casa, dell'amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ermanno Krumm, La miniera, "Il Foglio", 1 agosto 1997

 

La miniera è prima di tutto un villaggio ai piedi del Gargano, dove l'autore è nato ma è altresì il luogo delle profondità romantiche, il recesso cui l' "io" deve accedere attraverso una strada sotterranea, uno scavo perché alla fine giunga alla nuova conoscenza e con essa alla poesia. Come in un romanzo di formazione, il percorso è anche la ricostruzione di una genealogia, di una preistoria. Trattandosi di un lavoro di più di dieci anni (le cui prime sezioni, qui riprese, erano già state pubblicate) si ha insieme la rivelazione di un autore e, come in controluce, la percezione di una storia, con fasi e scansioni interne. La geografia e il paesaggio soccorrono: poiché, come segnala in nota l'autore, sono sempre centrali e individuatissimi; dalla Sabina di Fraturno all'Elba, isola natale del padre minatore. Le prime serie tengono a bada la materia autobiografica con una sorta di ripetitività insistita e grazie all'uso di un tono narrativo del tipo di quello sperimentato, in altri tempi, dal fondatore del Gruppo 63 Edoardo Sanguineti, cui assomiglia per un certo modo di riportare il discorso diretto, con un ricco commento sottovoce, tra parentesi. Ma lo scopo, la direzione della scrittura sono del tutto diversi. L'urgenza delle voci del mondo esterno e del sogno, così forti in Sanguineti, sono qui riportate alla concreta affettività del poeta, alla sua compagna, a certe bestie (l'ippopotamo, il gatto) e a un mondo incantato, quasi fiabesco che fa da sfondo. C'è addirittura la personificazione di una stradina cui la poesia si rivolge con tenere parole. Ma non per questo la visione è meno nitida. I grandi modelli latini si incontrano con la dilatazione visiva dei lirici inglesi dei laghi: Orazio e la fons Bandusiae, Virgilio e la tradizione bucolica tornano con gli occhi del giovane Wordsworth del "Prelude". L'ultima sezione, come attraverso un lungo cammino di riappropriazione, si abbandona, talvolta senza difese, alla commozione legata soprattutto alla figura paterna. E se qualche poesia sembra un po' in presa diretta, intervengono subito luoghi e vicende a filtrare l'emozione, ridando ai testi tutta la loro limpida efficacia. Ecco "Sul monte bello", ecco "La casa di Filemone e Bauci": non arriva mai nessuno e sia ha la sensazione "che tutto sia distrutto / e tutto sia intero, perfetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gabriella Sica, La miniera,  "La Stampa - Tuttolibri", 24 luglio 1997

 

È una "miniera" viva attiva la poesia di questo scorcio di secondo millennio che vene sotterranee mettono in contatto vitale con la "miniera" ricca e preziosa della poesia latina.
Anche di questo e di uno scavare nella nostra archeologia privata e mitica ci parla la poesia di Claudio Damiani con 'La miniera' appena uscito presso l'editore Fazi. Una poesia che è molto fluida e libera mai costretta metrica mente ma sempre semplice e discorsiva ; una poesia che non è astratta e fredda ma sempre morale.
Tre sono le tappe di questo cammino come tre sono i libi di cui i primi due già pubblicati del volume che raccogli l'intera produzione poetica di Damiani, dall'84 ad oggi.
In 'Fraturno' è il ritrovamento della natura cancellata dai moderni un luogo di quiete dove alberi animali e acque vivono nella interezza.
Ne 'La mia casa' gli elementi della natura sono esseri interi sono proprio persone che pensano, soffrono e cercano come le strade o le case.
Nel terzo e nuovo libro, 'La miniera' l'Elba è l'isola mineraria dell'infanzia dove cercare anche Ulisse, Elena o Diana, che non sono più miti ma persone.
Ecco un bel libro di poesia che non si può non condividere se si è per una letteratura della memoria che vada contro le poetiche di oggi fondate soltanto sull'urlo la scissione e la ferita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mario Bernardi Guardi, Giovannini e Damiani: l'avventura di far poesia, "Il Tempo", 7 giugno 1997

 

Ma in mezzo a tanta "spazzatura" letteraria, cinematografica, musicale, giornalistica, televisiva, c'è ancora posto per la poesia? Tra i mille sorriseti di compatimento che vediamo comparire sulle boccucce dei miscredenti noi diciamo di sì . E azzardiamo due suggerimenti che non riguardano i soliti "classici", bensì due poeti "giovani" se chi ha 40 o 50 anni si merita oggi di essere accolto in quest'affollato schieramento. Il primo è Claudio Damiani che raccoglie dieci anni di poesia "pura" ingenua restituita a una innocenza infantile come se il "fanciullino" pascoliano ritrovati inattesi spazi di libertà vi si buttasse dentro senza alcun rossore né desiderio di diventare "grande"; l'altro è Sandro Giovannini da anni animatore della cultura di Destra inventore di circoli letterari e di scuole poetiche avanguardista di mille esperimenti e di mille battaglie che consegna a una pregevole edizione amatoriale venti poesie giocate su tastiere sperimentali oppure tramate di suggestioni e messaggi per tutti quelli che hanno cara l'avventura (e la sfida) della Tradizione.
Claudio Damiani "La miniera", Fazi pp. 153 L. 25.000; Sandro Giovannini, "Il piano inclinato" Heliopolis Edizioni (Piazza Garibaldi 11-61100 Pesaro), pp.60 L. 50.000 (edizione con copertina in pergamena naturale dipinta a mano).

Tutti gli anni Romano Battaglia alle soglie dell'estate "riapre" quell'intelligente "spazio di incontro e confronto che è il caffè della Versiliana di Marina di Pietrasanta e pubblica un nuovo libro destinato al successo. Chi non ama queste storie di ritrovata armonia tra uomo e natura; di segrete corrispondenze tra il sole, il mare , il cielo; di arcane rivelazioni affidate alla bocca dei "poveri di spirito" storce il naso e magari va a stilare una recensione benedicente per l'ultima fatica "pulp". Eppure con il suo evangelico ed umanitario rigoglio di affetti (in questa ultima storia una giovane cieca riacquista la vista e dal quel momento "vede" immagini che sono rivelazioni fino a un mistico "incontro" con San Francisco), battaglia propone un suo "linguaggio" capace di forza persuasiva o per lo meno di consolazione e di rifondazione di valori. Non è tutto e forse non è neppur tanto: ma di fronte al nichilismo stracciarolo non è nemmeno poco.
Romano Battaglia, "Con i tuoi occhi", Rizzoli, pp. 135. L. 22.000.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giovanna Sicari, La miniera, "Galleria", n. 3, settembre-dicembre 1997

 

Quasi sempre il percorso della poesia nella ricerca della nostra esistenza ~ mimesi iniziatica, adesione a una geografia spirituale e psicologica che porta ad aderire al miracolo di una parola permeata di tradizione e di esattezza biografica, di assilli, di luoghi e di presenze.
Si cerca di superare un tormento, di vincere l'isolamento del cuore e della mente, di ricreare con tutte le forze una comunità di amici fedeli, di imparare a vedere la luce in ogni momento, fra le nostre più umili cose: rivedere, le cose nella luce accecante della prima volta, quella folgorante degli aquiloni pascoliani, quel tepore semplice e profondo dello sguardo che vede e già ricorda, già fissa l'attimo visionario dei bambini. È questa la direzione del libro di Claudio Damiani, "La miniera", volume che raccoglie testi scritti nell'arco di dieci anni.
Romanzo sentimentale, visione primigenia dell'unico mondo che ricompone il sogno velato, il nostro amato tempo, in scacco al nichiismo, alla rinuncia, alle teorie del negativo e alle sue infinite rielaborazioni. Il tempo inconfondibile, cardiaco, olfattivo, sensoriale della nostra esperienza sulla terra. Accettazione di un normale passaggio, accettazione e gratitudine, ingenuità: "Ripenso adesso a come amai interamente / quand'ero ragazzo, (.1 E adesso non dico:
tutto questo è falso / perché la vita è diversa, la vita mi ha cambiato; / adesso invece dico: era tutto vero / nasciamo angeli e interamente amiamo, / con tutto il cuore del nostro amore ci innamoriamo / come dei bambini che non conoscono il mondo / e interamente moriamo".
E vero: la vita con le sue degradanti brutture non può toglierci quel nucleo intero di necessarie meraviglie; non può, nel profondo, mutare le nostre condizioni di esseri nudi e poveri, ma sempre pronti a riemergere nel flusso della bellezza, del suo perenne movimento incantato.
Damiani petrarchesco? Amante e amato, instancabile traduttore di poeti latini, immerso in un mondo bucolico e introvabile?
Possiamo dire amante e amato dalla poesia, sua fede incrollabile, quella poesia che dà spazio all'umano, lago d'amore, accanto ai volti cari. Fraturno, un piccolo lago fra i monti della Sabina: 'Ora dorme su un fianco il piccolo lago / e respira piano / tu l'hai veduto / e sei tornata a casa / camminando al ritorno lo vedevi ancora / a casa la sua immagine durava nei tuoi pensieri".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francesco Vinci, La miniera, "Poesia '97", a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, 1998

 

Una lingua che confida unicamente nella sua autosufficienza è il punto di forza - e al contempo il limite più tangibile - della poesia di Claudio Damiani, che ne La miniera raccoglie un decennio di produzione in versi, da Fraturno (1987) a La mia casa (1994). La seconda di copertina ci suggerisce laconicamente che per l'autore di questa silloge (<la bellezza è comunque di questo mondo". E in effetti è questo, e non un mondo altro, quello cui Damiani si richiama per certificare i suoi sprazzi di esistenza febbrile - sullo sfondo naturale dei luoghi dell'infanzia - fotografati da una parola nuda e disarmata, sommessamente gioiosa, quasi sempre pronunciata con discrezione. Sentieri, giardini, laghetti e persone abitano pacificamente il dettato, vagamente improntato a una accennata maniera arcadica. Il presunto pascolismo di questi versi (appena al di qua dell'elegia) è comunque una cifra del tutto apparente o casuale: qui lo sguardo infantile non mette a fuoco la magia sotterranea tra le cose, ma le cose stesse nel loro manifestarsi quotidiano: nel loro caricarsi di verità e contingenza: "E adesso non dico: tutto questo è falso / perché la vita è diversa, la vita mi ha cambiato; I adesso invece dico: era tutto vero". La scelta rinunciataria del1'~cantiletterarietà" non nasce dunque da un'ansia di catarsi (che pure talvolta traspare), ma dalla chiara volontà di ripristinare una possibile comunicazione positiva con questo mondo. La voce schietta e imperturbabile di Damiani è tuttavia minacciata dalla sconcertante immediatezza di una lingua poetica troppo piegata all'evidenza del segno diaristico e descrittivo - che un più rigoroso labor limae avrebbe potuto tenere sotto controllo, per evitare il rischio dell'ovvietà e dell'eccessiva epurazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Roberto Galaverni, Claudio Damiani. La bianca miniera della poesia, "Nuovi Argomenti", n.1/2, Quinta serie, gennaio - giugno 1998

 

Nel panorama della poesia italiana degli ultimi vent'anni, la lirica di Claudio Damiani rappresenta senza dubbio un elemento estremamente connotato dei paesaggio, quello in cui più visibili e continue si danno le caratteristiche di semplicità e di nitore che per una consuetudine ormai invalsa si è soliti rapportare a una linea tutta anti-novecentesca della naturalezza e della claritas. La linea, in sostanza, che si disegna tenendo insieme le risultanze altissime di Saba, Bertolucci e Penna. E si tratterà di una zona, come risulta dai nomi ora richiamati, dove questa stessa naturalezza, o grazia (come non ricordare quella celeberrima bertolucciana), costituisce un raggiungimento stilistico che contrasta, a volte in modo addirittura perturbante, con le inquietudini e le lacerazioni dei tessuto psicologico (e raggiungimento di assai difficile definizione critica, come se trattenesse qualcosa di tanto più ineffabile e sfuggente, quanto più in esso sembrerebbe levigarsi e redimersi qualcosa come il dolore individuale). A ben guardare, tuttavia, il discorso poetico di Damiani - che trova certo un riferimento sicuro nei nomi dei tre poeti indicati, a cui è possibile aggiungere quello di Caproni e affiancare la poesia cortese e gentilissima di un compagno di strada dei tempi della rivista - "Braci" dico Beppe Salvia - si svolge in modo compiuto a un livello che sembra derivare da un alientamento particolarmente evidente, psicologico, razionale e tematico, ma più ancora stilistico e, in senso lato, tonale, dello splendore di quello spazio quasi miracolosamente discorsivo individuato dai grandi maestri. Rispetto a questi Darni.ani si muove verso il basso, il suo è sermo humilis, parola-che-si-fa radente ai propri oggetti, ma nel convincimento che, per una sorta di capovolgimento morale e qualitativo, proprio nell'orizzonte tutto terrestre e rugiadoso di un prato fiorito si dia la sola condizione per incontrare qualcosa che soltanto con pudore si può chiamare felicità. Da qui, come nella retina di un San Francesco a cui sia stata sottratta la possibilità di un rispecchiamento celeste del creato, l'abbassamento e l'esultanza, la semplicità come conforto e come gioia, come integrità e verità delle cose:
"subito apprendi / che tutto è vero, ogni cosa che vedi / è vera, e svolge la vita nel tempo / e è intera". Di qui, anche, la particolare mobilità, il cantato cantilenante, se mi è permesso, della lassa di Damiani, che procede per iterazioni variate, ossia per una felicissima modulazione, delle ripetizioni, a determinare una specie di narrazione aperta alle sorprese, alle cose che si offrono allo sguardo una dopo l'altra, ma sempre attraverso un legato ritmico e sonoro che sembra equivalere a una forma di rispetto, di riconoscimento dell'altro, di ogni altro, nella sua integrità: "Tu accarezzavi i campi / e baciavi le zolle tenere. / Tu baciavi sulle case i tetti / che erano rimaste sole. / Tu accoglievi nel tuo seno le volpi / e tutti quelli che erano rimasti. / Tu portavi la notte azzurra / come ogni notte ancora sopra i tetti, / tu portavi la mattina bianca / alla finestra della mia stanza".
E' la lingua dei fanciullino, si potrebbe dire, con quella cadenza di dolci inciampi e di spostamenti improvvisi che equivalgono ad altrettanti indugi amorosi e a nuove passioni: ecco una cosa, poi ancora lei, quindi subito, con la stesso stupore, eccone un'altra, e così via. Non si tratterà tuttavia della profonda e insondabile psicologia linguistica pascoliana, insieme impressionistica e simbolica, quanto di una lingua di gioia, o almeno di aspirazione ad essa. La poesia di Damiani è cantico, vive fuori dal dolore, anche quando è più accorata e sollecita; vuole essere diretta, fraterna e anzi, ancor più, materna, e così celebrare l'amicizia e l'esistenza delle cose amate. Così Pascoli, quel Pascoli alla cui poetica Damiani si è più volte mostrato molto sensibile, andrà avvertito piuttosto in un movimento originario, ossia per la figura, che nel poeta di San Mauro è però tutta difensiva, dei nido. La lirica di Damiani nasce infatti da una selezione davvero radicale delle cosiddette occasioni poetiche, che sono tutte riconducibili alla almeno apparente determinatezza di un luogo e dunque alla certezza di un preciso paesaggio affettivo e sentimentale e alla trama delle sue corrispondenze interiori. Da questo punto di vista la poesia nasce soltanto attraverso un'operazione che è al contempo di astrazione e di individuazione radicale; come se la visione dei mondo di Damiani fosse rigidamente bipartita e come se la parola poetica si appoggiasse esclusivamente su uno dei due rami. Va però aggiunto che la censura tematica e psicologica si rovescia in una altrimenti impossibile disponibilità, non soltanto sensibile (ben più autenticamente di altre sacerdotali celebrazioni poetiche), e dunque in un'etica della comprensione e della fraternità. Per questo, come detto, una volta acquisito, questo spazio è tutto estrovertito e luminoso, di nitidissima apertura emotiva, senza risonanze di offesa, o meglio ancora senza ambiguità semantiche; il buio lo si è lasciato fuori, anche dal linguaggio, e quando insidia tutt'attorno è lui, ha il suo nome, è proprio il buio: "Mutolo mugola solo / nel piccolo orto deserto solingo... / (E già il giardino le foglie ricoprono, / già lento scende dai gelidi monti / l'Autunno triste col querulo flauto)".
Il luogo, dunque. 1 primi due libretti di Darniani, Fraturno e La mia casa, usciti rispettivamente nel 1987 e nel 1994 presso due piccoli editori e ora opportunamente ristampati come i primi due tempi della nuova raccolta eponima La miniera (Fazi, 1997), facevano infatti quasi esclusivo riferimento agli amatissimi luoghi oraziani tra i monti della Sabina (dico amatissimi, ma in realtà necessari alla vita di questo poeta come il respiro stesso), il fratello lago, Fraturno, i torrenti Licenza e Aniene, la fons Bandusia, il paese Percile, le rovine della villa stessa di Orazio e le altre rovine dei vecchio, alto borgo medioevale di Morella. E con essi i nomi di pochi alberi - il melo, il nespolo, i "cipressetti", gli eucalipti, i biancospini -, di qualche fioritura o di qualche raccolto, di "una piantina grassa azzurra", di alcuni animali, come Mutolo, "il piccolo gatto nero", gli uccellini, il "caro piccolo anatroccolo", le mucche, le lucertole, i girini. A tutti questi luoghi, al mondo della natura, agli esseri animati, Damiani sì avvicina con un riguardo davvero straordinario, ogni volta ritrovando e insieme custodendo quella confidenza dei sentimento a cui non si può dare che il nome di amicizia, dal momento che, dentro allo spazio chiuso della Sabina, non si dà l'incontro con il nuovo, quanto il riconoscimento - ora euforico, ora come miracolato rispetto all'oscurità e al silenzio circostanti - con i volti già noti e amati, in un incontro con l'autenticità che sembra avere per il poeta il valore di una almeno momentanea salvazione: "Vorrei restare qui tra le lucertoline. / Voi tornate a casa, / io vorrei restare qui. / Non vorrei, ora che il sole sta tramontando, / come sempre, alzarmi e tornare". Ma è importante sottolineare come nel movimento di approssimazione e quindi nel contatto con il mondo circostante, la conoscenza della verità sia in Damiani indistinguibile dal superamento della solitudine in una nuova, altra, fraterna comunità. Proprio la solitudine infatti è il vero nemico, l'oscurità temuta da questo poeta; ed è proprio tale minaccia sostanziale a determinare il suo discorso poetico come scarto propositivo e non solo come medicamentum. In questa prospettiva il francescanesimo, da piùparti e opportunarnente richiamato per Damiani, viene doppiato in modo decisivo da una componente riflessa e classica, anche al modo oraziano, per cui la comprensione umana diviene la misura massima della maturità. La semplicità è l'acquisto più grande, è la gioia di aver compreso e di amare il proprio destino: "Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano".
E si tratta senz'altro, come detto, di un colloquio non con cose ma con volti e con figure, da cui la frequentissima, si direbbe necessaria antropomorfizzazione (si ricordi come sia un modo non inusuale al Bertolucci delle prime raccolte poetiche) e i continui dialoghi. Damiani ha sempre bisogno di un tu, anche se il suo avvicinamento a esso avviene con la trepidazione protettiva di una madre. Così il "piccolo noce" Albio: "e tu sei così sano / invece e lucido e bello e pulito / Albio e stai in piedi nel tuo dolce angolo / nella luce"; i papaveri di Primavera (dedicata all'amico Salvia, il suo titolo in Fraturno era Per il "Calendario"), che "la mente distolgono / dalle faccende loro e al mio tesoro / solo indirizzano i capi e gli steli"; il sentiero: "Il sentiero sale fiorito, / sorridente di biancospini bianchi. / Come mi vede è contento / e vuole giocare girando le curve. / Ora gioca a nascondersi / perché scompare sotto i miei occhi"; il lago: "Ora dorme su un fianco il piccolo lago / e respira piano"; o ancora tutto il mondo intorno a Fraturno, nella sua fremente e solidale, armonica animazione: "Non svegliate il laghetto che dorme, / pioppi, con le foglioline dei rami, / vento, non soffiare così forte, / freddo, non essere così rigido, / vedi che non ha coperte! / Nuvole, trattenete l'acqua / passando sopra di lui, / stelle, luccicate pure, / guardatelo ma non svegliatelo. / Non svegliatelo, non lo svegliate, / è solo, non ha nessuno~. Caratteristica di queste aggraziatissime figurazioni antropomorfe è un'animazione tutta discorsiva, una vitalità che dal poeta viene riconosciuta all'esterno anziché sviluppata a partire dalla propria attività, per cui la descrizione è quasi sempre implicita, tanto che assai poco numerose sono le diramazioni e gli approfondimenti attributivi e sempre con un valore designativo ed essenziale. Ciò che si trova in Damiani non è la descrizione, con la misura interpretativa dell'occhio che la scandisce, quanto piuttosto un procedimento e più ancora un rituale che definirei di nominazione. E ancora: non l'osservazione e il disegno degli elementi del paesaggio amato, quanto l'accordo e la prossimità di sentire che consentono -il loro riconoscimento immediato, il contatto e il dialogo; e in tal modo, di nuovo, il superamento della solitudine, dell'offesa dell'abbandono.
Non poche caratteristiche di questa poesia si possono ricondurre a tale necessità di individuazione, che equivale poi - certo soltanto all'interno dello spazio circoscritto dei recinto che la rende possibile e la garantisce - a un sentimento dell'integrità e dell'uguaglianza di ogni essere, con una sorta di dolce e festosa magnanimità, tanto che Emanuele Trevi ha potuto giustamente parlare di un "mondo che sembra avere accolto in sé il tempo della giustizia". In tal senso, la componente stilistica più vistosa e continua è data dai procedimenti di coordinazione, come se il mondo non potesse che essere detto attraverso la parificazione dei suoi abitatori. In non pochi casi, in modo apparentemente meno originale, si inc ontra allora l'asindeto, più spesso nella forma dell'elencazione ellittica, che qui però ha una valenza tutta positiva ed euforica, delicatamente celebrativa, che la inclina in una direzione anti-novecentesca; ed è un uso di tutto Damiani, a rilevare, anche per questo verso, una preferenza per la sostantivazione individualizzante, ma appunto priva di discriminazioni gerarchiche e qualitative (basta pensare all'unica lassa senza predicato di Aria intorno alla mia casa). Il più delle volte, tuttavia, il discorso procede attraverso la coordinazione esplicita-.e più diffusamente il polisindeto, che costituiscono davvero la misura più propria di Damiani, determinando un canto semplice e cadenzato (a cui concorrono anche le tante iterazioni lessicali e sintattiche), ma capace di riservare come una sequenza di piccoli prodigi, come di chi camminando a ogni passo potesse stupire di un nuovo e felice incontro. E si tratta di una meraviglia che può riguardare i gesti più familiari, facendone una melodia appena trattenuta, come nel pudore di avere sfiorato, proprio lui, il poeta, qualcosa di molto simile alla gioia: "Dovevi spogliarti, e rnetterti nel letto / e appoggiare il tuo capo sul cuscino / senza che io ti vedessi, / senza che io fossi vicino a te. / E Liebe sentivi che sgrattava alla porta / e che uggiolava e che guaiva, / senza abbaiare perché non doveva fare rumore, / e tu non dovevi aprirgli, perché non voleva il padrone, / ma non riuscivi a non aprirgli, ed ecco, alla fine, aprivi, / e lui entrava contento e saltava nel tuo letto / e si addormentava subito.
Più di ogni altra, tuttavia, è la consuetudine con la figura della (casa che corrisponde poi a qualcosa che è insieme fisico e psicologico, a una temperatura, a un tono prima di tutto - a determinare quella trama affettiva che rappresenta l'atmosfera tipica di questa poesia, vale a dire quella che dal tepore di un pomeriggio di inizio autunno può passare alle luci radiose e ai suoni della primavera. Ed è la casa così intesa, anzi, la sua casa, il luogo autentico della poesia di Damiani (il possesso poi - per cui si pensi all'importanza dei tanti possessivi o al titolo stesso della seconda plaquette - non è affatto materiale, ma emotivo, di cuore vorrei dire; è la garanzia di custodire un sentimento, la possibilità di rinnovare una confidenza profonda). Per la casa, insomma, si ripete con un più di evidenza e di accoramento quanto detto per lo spazio prediletto della Sabina. Non poche tra le liriche più riuscite di Damiani si legano infatti ad essa e in particolare Se fossi qui seduto e non avessi, che ritengo la sua migliore in assoluto - è che non a caso è tale da offrire perfettamente calibrata la disposizione emotiva e poetica a mio avviso più efficace e toccante dei poeta romano. E questa si incontra quando l'Arcadia con il suo idillio lieve riesce meno pacificata e lucente, ma appare ancora turbata dalle increspature dell'ombra dell'alterità da cui è riuscita a stento a sottrarsi e da cui sembra non potere comunque preservare a lungo la propria fragilità. Così sul filo della parola, che procede chiara e sicura di trovare la propria felicità là dove sa esistere lo spazio accordato dei sentimento ("Se fossi qui seduto e non avessi / tutti questi pensieri d'intorno / io volerei tra gli eucalipti fruscianti / della mia casa natale"), si instaura come un tremito una zona inquieta; mentre sui luoghi e sugli esseri amati, si diffonde una luce più mossa e più varia, il riflesso, anche, dei buio, per cui davvero il colloquio con le cose può darsi soltanto a partire dal filo sensibilissimo dei desiderio e dunque nei termini appena sospesi di una visione---. "2 questo il tempo che la primavera comincia / o forse è autunno e il cielo è limpido azzurro. / gli uccellini fanno dei piccoli voli d'intorno / e io mi siedo sotto quest'albero". Un vedere che a partire dalla indeterminatezza temporale si fa poi subito nitidissimo e certo, almeno relativamente ai propri punti di riferimento, ma tuttavia sempre con un senso misto di trepidazione e di gioia, LIUOI %do la dolcezza non può ancora essere quella dei riposo in cui si troverebbero insieme la pace delle cose e dei cuore. Allora è come se la gioia delle immagini si sostenesse su un respiro ancora un po' ansioso: "e non vorrei che la sera venisse, / non vorrei sentire il suono del calesse / del lattaio che viene dalla lontana strada. / Ma se la sera venisse / vorrei che fosse subito notte, / vorrei vedere le stelle luminose nel cielo, / vorrei sentire il respiro degli alberi vicino alla mia casa, / vorrei sentire che la mia casa / non è triste, ma è lieta". Rispetto alle due prime raccolte, La miniera appare temaficamente più mossa, in quanto la centralità figurativa, finora pressoché assoluta, subisce una dislocazione sia nello spazio che nel tempo, come se Damiani provasse ad allargare i confini del proprio mondo poetico per saggiarne la consistenza. Ma non è la sua poesia, o direttamente la sua storia di poeta ad essere messa alla prova; piuttosto l'interrogazione riguarda la realtà del sentimento che l'ha determinata e che ancora la sostiene e la rende necessaria. Fin dall'inizio è l'allontanamento verso l'infanzia passata in un villaggio minerario dei Gargano e raccontata tra e altre nella bellissima Mi rivedo nell'officina, con la sua serie di emozionanti iterazioni: "C'era un'italia povera e il deserto era riarso e i bambini andavano a piedi nudi per le strade. / Se potessi cercarti per poterti ritrovare, / per poterti dopo tante ricerche, / dopo tanto cercare / come dopo una guerra / finalmente riabbracciare".
Ma il tempo si trova anche nel passato dei paesaggio appartato della Sabina, come nella sezione fiabesca Il bambino e la principessa, o nella lontananza indeterminata e favolosa dell'altra sezione La casa di Filemone e Bauci, o ancora nelle poesie di suggestione mitologica della Vecchiaia di Ulisse, dove però l'incanto che è del miglior Damiani stenta a crearsi, come se la necessità di trasfigurare il presente nella favola antica portasse la strofa a irrigidirsi. La componente logica, la riflessione, quando non si diano nella loro risultante, ossia come acquisizione, come riconoscimento e amore di ciò che è, interrompono immediatamente l'unità tonale della rappresentazione, incrinandone la leggerissima sospensione: "Ho tanta scienza dentro di me / eppure devo morire. / Vorrei scendere sotto la terra, / ma non per sapere della vita, come un tempo, / ma per sapere della morte".
Ed è appunto quello dei tempo il motivo che attraversa e unifica La miniera (e Il tempo è anche il titolo di una sua breve sezione), affrontato proprio là dove può significare la consumazione e la decadenza de mondo di affetti concordi necessario alla vita e, in primo luogo, all'esi stenza della poesia. Alla aggettivazione più consueta di Damiani ecco allora affiancarsi la designazione del negativo, come se la cittadinanza poetica fosse stata concessa anche al ramo finora escluso della sua visione dei mondo. Ecco allora che ai gia noti ma sempre incantevoli dolce, tenero, silenzioso, tenue, chiaro, azzurro, lieto, mite, bello, si affiancano gli apparentemente antitetici triste, solo, malato, diroccato, rotto, devastato. Ma, in realtà - a significare ancora una volta come il tono più autentico di Damiani possa darsi soltanto in termini di comprensione e dunque di quiete e anche di saggezza -, quello che dovrebbe essere l'affronto dei tempo vive invece come sentimento del tempo, e pertanto non come offesa, ma come riconoscimento e ritrovata armonia. Così di nuovo, là dove si stabilirà questa corrispondenza, la strofa potrà ritrovare il suo più alto e accordatissimo respiro. Anche per questo verso, allora, si rivela la componente classica e in particolare oraziana che è la condizione dei canto e della lode della poesia di Damiani: "E adesso non dico: tutto questo è falso / perché la vita è diversa, la vita mi ha cambiato; / adesso invece dico: era tutto vero. / Nasciamo angeli e interamente amiamo, / con tutto il cuore dei nostro amore ci innamoriamo / come dei bambini che non conoscono il mondo / e interamente moriamo". Ciò che importa, sembra dire il poeta, è ciò che si porta dentro, la passione che si spende, quello che si tiene nel cuore e che forse può durare ed essere ritrovato al di là di ogni mutamento. E' questo cuore il vero luogo della poesia di Damiani, la sola casa della sua voce bianca, o anche, come avrebbe detto Pascoli, della sua voce buona. Ed è un filo esilissimo, fragile e prezioso; un filo dei sentimento, che si può custodire soltanto con amore: "Chi ti conosce ti pensa e ti tiene nel suo cuore"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gian Mario Villalta, La miniera. La compostezza delle cose, "Tratti", n.49, autunno 1998

 

Questo libro di Damiani raccoglie un lavoro poetico di oltre dieci anni, scandito nelle sillogi Fra- turno (Abete, 1987), La via a Fraturno (in Secondo quaderno italiano di poesia contemporanea, Guerini e Associati, 1992), e La mia casa (Pegaso,1994), con una nuova, ampia e consistente presenza di componimenti, contrassegnati dal titolo La miniera, sotto il quale viene presentata l'intera opera.
A tali rapide informazioni si può aggiungere, altrettanto rapidamente, l'anno di nascita del poeta, il 1957, a San Giovanni Rotondo (Foggia), il fatto che vive a Roma fin dall'infanzia e che ha condiviso l'esperienza delle riviste "Braci" e "Prato pagano".
A questo punto, una volta fornite le coordinate minime appena sufficienti ad individuare il poeta e il libro, si vorrebbe poter dire a chi scorre queste righe:
'Ne riparliamo dopo che l'avrai letto"; oppure ci si vorrebbe rivolgere direttamente all'autore, per un lungo colloquio.
Non intendo sottrarmi così ai compiti descrittivi del recensore, ma soltanto sottolineare una convinzione personale, che è questa: una campionatura della pagina di Damiani, con citazioni parziali - come si usa - ci offre la possibilità di fargli un grande torto, mentre, d'altra parte, l'enunciazione degli effetti complessivi di lettura, e anche delle perplessità, delle mancate consonanze, finisce per spostare il ragionamento su un altro piano, ancora diverso: le domande che Damiani ci invita a porre, le inquietudini che la sua quiete muove.
Cosa succederebbe a riportare da questo libro, ad apertura di pagina: "Ti piaceva tanto, quella casina, tesoro, / ti piaceva tanto", oppure: "Begli uccellini lieti / che sul ramo cantate/ col vostro dolce canto / il mio amore svegliate", o ancora:
"Tu fosti tanto cattiva con quell'uccellino / appena nato, caduto dal nido", cosa succederebbe nella testa di un lettore che viene a conoscere Damiani in questo modo, per la prima volta? Il problema inizia di qui: devo dire al lettore, e ne sono convinto, che - qualunque sia l'effetto dei versi che ho citato - ogni poesia di Damiani, e la raccolta nel suo insieme, lascia una profonda impressione di fermezza compositiva, di circoscrivere un mondo meditato e autentico, e anche di una provocazione non pretestuosa. I diminutivi, gli arcaismi nel lessico e nella strutturazione del verso, le frequenti interrogazioni concorrono a far confluire un'affettività intensa e stupita nella continuità di una tradizione poetica, negando alla modernità quella oscura potenza di annichilimento che tutto il Novecento le ha riconosciuto. Programmatici, al riguardo, questi. versi: "Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie! come sempre sono state scritte".
È difficile, infatti, non riconoscere in queste parole una provocazione: quanta retorica c'è, quanta ideologia, quanta distanza dalla comune esperienza della tragicità della vita, nello spettacolo del nulla che questo secolo si è ostinato a lnscenare? E il tragico non è forse nella quiete delle cose che passano sulla terra, che non trovano verità in altro che in questo passare? Non è un caso che Damiani guardi più a Orazio e ai classici (attraverso la meditazione di Pascoli) che ai contemporanei. E l'immediata, aperta luminosità di certe poesie sembra dargli ragione; una ulteriore conferma proviene dal fatto che, pur con i frequenti pesi di "poeticità" già messi in luce, la sua lingua suoni presente e comune. La parte medita del volume, La miniera, ha momenti in cui scompare la sensazione che il dettato obbedisca a una fin troppo scoperta volontà di programma, per aprire spazi di riconquistata dicibilità.
La mia perplessità infatti - finalmente la dico - riguarda la diffusa percezione che, insieme a tanti aspetti di una visione preformata del reale immaginato, Damiani si sia dimenticato di interrogare il rapporto tra poetica e poesia, e che la sua poetica, così compatta e priva di esitazioni, risenta alla fine di un atteggiamento che vede rientrare per la finestra ciò che aveva obbligato a uscire dalla porta. Per quanto - devo ripeterlo - le poesie più recenti prospettino altre aperture, c'è il rischio, insomma, dopo tanto e forse troppo disincanto, di un eccesso di re-incanto programmato e tassativo.
È una perplessità. E vorrei che fosse veramente, apertamente intesa per tale. Di fatto, a questo libro si crede senza sforzo, per quanto - altrettanto sinceramente - non si possa fare a meno di provare in certi casi un senso di irritazione per certe formule, forse troppo insistite. Occorre sottolineare, d'altra parte, che nel
dettato lineare e pulito di questa poesia, il tono è il dato più potente, e certe formule svolgono la funzione di sostenerlo e rinnovarlo, permettendo così lo svolgimento ditemi complessi e strutturati su più piani.