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Giancarlo Pontiggia, La miniera, "Poesia", n.131, settembre 1999

 

E' certo impossibile dar conto in poche righe di questo primo libro di Claudio Damiani, della sua complessità e novità in termini sia di struttura sia di linguaggio. Quali semplici appunti di lettura andranno dunque intese le osservazioni che seguono. Primo libro, innanzitutto, benché in esso confluiscano tre plaquette pubblicate fra il 1987 e il 1994 (Fraturno, La via a Fraturno, La mia casa): l'aggiunta delle nuove sezioni, che danno il titolo generale alla raccolta, arricchisce infatti e approfondisce il senso di quei volumetti già lontani, esaltandone soprattutto la finissima trama letteraria. Fin dal ciclo di Fraturno (un laghetto dell'agreste e arcaica Sabina, corrispettivo familiare della Fons Bandusia oraziana) il recupero degli emblemi e degli stilemi classici trova il suo nucleo ispirativo, più ancora che nel prediletto Orazio, nell'esperienza dei poeti elegiaci latini (Properzio e Ovidio in particolare) e nei componimenti più teneri e affettuosi dell'Appendix Vergiliana. Si pensi a questi tre esametri della Lydia: "Invideo vobis, agri formosaque prata, / hoc formosa magis, mea quod formosa puella / in vobis tacite nostrum suspirat amorem" ('Sono geloso di voi, campi e prati belli, per questo tanto più belli, perché la mia bella tacitamente tra di voi sospira il mio amore"). Non solo dunque la tersa limpidezza della prima generazione augustea, ma anche quella variegata dolcezza primo imperiale (non priva di tocchi soavemente ironici e di elegante narratività) che Damiani recupera attraverso la mediazione arcadica (le meravigliose canzonette del Rolli e del Metastasio, tanto care a Goethe) e pascoliana (con la sua addensante e onirica visionarietà). Nelle ultime sezioni sembrano accantonati i vezzi neoterici degli esordi (i diminutivi amorosi, per esempio) a favore di un verso più prosastico di ampio e armonioso respiro. Lo sguardo archeologico (tra il Properzio del IV libro e l'Ovidio dei Fasti), la discontinuità petrarchista dei pensieri e degli stati d'animo, la cristallina dolcezza delle immagini, l'animistico appello alle cose del mondo (salvate nell'immediatezza di uno sguardo fanciullino) si intensificano nella rete emotiva dei suoni e nella celata allusività letteraria dei versi. Qual è la lezione più significativa di questo libro? La riconquista di una dicibilità e di una cantabilità al di là di ogni algido classicismo; la fedeltà alla vita e ai suoi oggetti più semplici, dei quali la poesia si fa tenero e intransigente custode.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paolo Febbraro, La mia casa, "Poesia", n.97, luglio/agosto 1996

 

Fin dall'esordio del 1987 con Fraturno, la lingua poetica di Claudio Damiani è apparsa disarmata, apertamente rinunciataria nei confronti dell'armamentario del "poetico", sia di quello tradizionale sia di quello anti-tradizionale, resoci consueto da cent'anni di Novecento. Certo è che Damiani è un poeta che richiede un ascolto duraturo, tale da indurre lentamente ad abdicare a ciò che della poesia già astrattamente sappiamo. Solo così, affidandosi a una lettura continua, al ritmo poematico, quasi incantatorio di questo suo nuovo libro, solo in una condizione mentale favorevole, simile a una paradossale "concentrazione sovrappensiero", si potrà avvertire la tenuta e la coerenza interna dell'operazione poetica. La casa del titolo, luogo che unisce la concretezza del riferimento reale alla ricchezza semantica del simbolo, è il topos centrale che sorge dalla sovrapposizione di una psicologia e di una retorica, è il periglioso punto d'arrivo di un percorso che l'io poetico vorrebbe segnato dalla luce, circonfuso dalla grazia di un ritrovamento, di un segno certo. Tuttavia, e immancabilmente, esso è tale solo in parte. L'aura di innocenza, la gioia di un'epifania o d'una visione, la prospettiva che s'indovina nella memoria dietro ogni sguardo presente, non cancellano l'inquietudine del mancamento. La casa del poeta reca anch' essa i segni della storia: l'infanzia che pascolianamente rappresenta può essere recuperata solo a partire dalla sua perdita. Quello di Damiani è un percorso circolare e insistito perché perennemente incompiuto. La sua concentrata illusione, la sua fedeltà al potere evocativo di una traccia, di un insieme di luoghi fisici e mentali cercati con irrequieta fissità, sono anche la misura, nel corso degli anni, della perdurante somiglianza di questa poesia a se stessa. La stradina, il sentiero, il laghetto Fraturno, la città di Monella diventano così "braci di fuoco eterno" indicanti la direzione di un desiderio antico, capace cli occupare tutto lo spazio del dire. Siamo di fronte a un autore che tenta l'estremo, anche col rischio continuo di cadere, di rompere un equilibrio spesso arduo. È probabile che ciò che sul piano espressivo appare candore, immediatezza, empito, cordialità, sia in Damiani una forma di sostenutezza, frutto non tanto di una selezione o di un purismo bensì di una consapevolezza da scrittore tardo, innamorato cli Virgilio, Properzio e Orazio e viceversa più simile a Rutilio Namaziano, Pontano, Pascoli latino e traduttore. Il luogo del ritorno, della propria consistenza memoriale e psichica è la lingua, non strumento di significazione ma propria "casa", di cui più facile è immaginare le fondamenta che le finestre. Col che siamo proprio dentro al Novecento della coscienza del fare e della ricerca linguistica che diventa metafisica o ideologia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Paolo Febbraro, La mia casa, "Galleria", n.3, settembre-dicembre 1995

 

C'è una poesia in questo libro di versi che comincia: "Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte..." e che termina: "... che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano". La si può leggere interamente nel nuovo libro di Claudio Damiani, un poeta che fin dall'inizio della sua carriera, databile dalla fine degli anni settanta, cerca e modula la sua voce, la sua lingua con la semplice solennità di un sacerdote che battezzi l'unico luogo sulla terra dove egli possa abitare. Una lingua così disarmata, così apertamente rinunciataria nei confronti dell'armamentario del "poetico", tradizionale o anti-tradizionale, resoci consueto da cent'anni di Novecento, è quasi uno scandalo, può sembrare una provocazione che ancora oggi - Damiani è alla sua terza raccolta - innesca reazioni fortemente contrastanti fra loro.
Certo è che Damiani è una poeta "difficile": domanda cioè un ascolto perdurante, tanto da indurre lentamente ad abdicare da ciò che della poesia già astrattamente sappiamo. Solo così, affidandosi a una lettura continua, al ritmo poematìco, quasi incantatorio del suo libro, si potrà cogliere questo poeta nella sua difficile facilità, solo in una condizione mentale favorevole, simile a una paradossale "concentrazione sovrappensiero". Tanto più che la casa del titolo, luogo al tempo stesso sospeso e reale di tanti altri luoghi psicologici, è il centro di un percorso che il poeta vorrebbe segnato dalla luce, circonfuso dalla grazia di un ritrovamento, di un segno certo, ma che immancabilmente è tale solo in parte. L'aura di innocenza, la limpida gioia di un'epifania o d'una visione, la compresenza della memoria dietro ogni sguardo presente, laddove si compiono e si ripetono le scene di un rito amoroso che evoca il paesaggio o il "tu" femminile, rimandano all'immagine di un cristallo purissimo che s'incrina, di una luce troppo intensa per non far sospettare un'angoscia, una negazione, una paura inaccettabile. La casa del poeta reca anch'essa i segni della storia: l'infanzia ch'essa pascolianamente rappresenta può essere recuperata solo a partire dalla sua perdita, di cui buio e distruzione sono i segni inconfutabii.
Ecco forse, allora, la cifra nascosta della poesia di Damiani. Il suo è un percorso circolare e insistito perché perennemente incompiuto. La concentrata illusione del poeta, la sua fedeltà al potere evocativo di una traccia, di un insieme di luoghi fisici e memoriali cercati con irrequieta fissità sono anche la misura, nel corso degli anni, della perdurante somiglianza di questa poesia a se stessa. La stradina, il sentiero, il laghetto Fraturno, la città di Morella diventano così dei punti luminosi, "braci di fuoco eterno" che segnano la direzione di un desiderio che arde fin dentro ai pensieri e ai sogni più riposti, più lancinanti, più cari, sempre ritornanti. A patto però che essi siano confessati col maggior candore sostenibile dalla lingua, e a volte anche oltre quel limite, in una poesia così priva di astuzie, di messaggi e di contorsioni.
Ciò che non contende, com'è ovvio, l'appartenenza a una lingua e a una ben rilevata cultura da parte di un poeta il cui gusto si è formato sulla lettura di Orazio, Petrarca e Pascoli, tutti auctores abili ed estremamente consapevoli della propria strumentazione stilistica. Così come non impedisce di azzardare altre suggestioni, come ad esempio quella dei versi latino-umanistici di Pontano. Di fatto, però, ci troviamo di fronte a un autore che tenta l'estremo, anche col rischio continuo di cadere, di rompere l'equilibrio spesso arduo; un autore che in un suo modo, con la sua nominazione aperta, precisa, confidente, col suo tentativo di recare luce alle cose, al tempo e alla morte stessa, come negli splendidi versi riportati qui sopra, ci ricorda che il compito della poesia è pur sempre quello di aiutarci a vedere l'evidenza di ciò che è nascosto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Massimo Onofri, E i versi riscoprono la tradizione. In dialetto. Una grande cura formale e linguistica che giunge a una musicalità sobria e quasi "classica". E forse sono soltanto la punta dell'iceberg…, "L'Unità", 30 giugno 1997

 

Per una combinazione del caso, quel caso che dipanando i suoi fili, può rivelare talvolta, nel proprio recto, una qualche forma di necessità, mi sono trovato tra le mani quattro libri di poesia molto diversi, ma accumulabili da un certo sentimento della tradizione. Per questi poeti - Claudio Damiani, Gabriella Sica, Giancarlo Consonni, Nino De Vita - la tradizione, una tradizione apportatrice di ordine, serenità e bellezza, non può non equivalere alla cara immagine materna che ogni figlio preserverà intatta dentro di sé. Ma non è questo il solo tratto comune: ad unirli, infatti, c'è anche una devozione formale, una cura scrupolosa che si traduce quasi sempre in pulizia e nitore, sobria e scabra musicalità.
Particolarmente gradita mi giunge la raccolta di Damiani "La miniera" (pp. 160, lire 25.000) pubblicata dall'editore Fazi: vi confluiscono, oltre i versi dell'ultima sezione che dà il titolo al libro, i lavori precedenti di Damiani, "Fraturno" (1987) e "La mia casa" (1994), a ricapitolare più di dieci anni d'attività. Damiani, per cosi dire, è il poeta più latino che io abhia conosciuto: e dico latino facendovi rintoccare i lontanissimi echi di quel che gli antichi popoli del Lazio furono per la civiltà della Roma non solo repubblicana. E latino, infatti, è stato finora il suo paesaggio: quello che si anima intornoall'oraziana fonte Bandusia che ha rappresentato sin qui la sorgente luminosa della sua poesia.
Non bisogna dimenticarlo: Damiani è uno di quei poeti che ti colma gli occhi delle cose che ama, che ti popola la fantasia di nostalgie. La natura a lui più familiare è quella formicolante di vita del Giardino del mio amore: e Damiani ha saputo assaporarvi il miele dell'ozio. Leggetene il finale, sono versi che lo candidano, tra tanto nichilismo novecentesco, all'arduo ruolo di poeta della gioia: "Questo è il giardino; se lo guardi è forte / il lume tanto che ti fere gli occhi /e ti rivolti, ma subito apprendi /che tutto è verno, ogni cosa che vedi / è vera, e svolge la vita nel tempo / e è intera…".
L'ultima sezione della raccolta apre un capitolo nuovo. Intanto il paesaggio si arricchisce della Puglia mineraria dell'infanzia: ma quel che più colpisce è vedervi impressi i segni della fatica umana. Accanto alla dolcezza del tempo che passa, consueta nei suoi versi, si avverte ora un che di acre e rovinoso, una sorda minaccia a quella letizia del vivere che è interamente sua: e il poeta ha saputo limitare quell'uso del vezzeggiativo che talvolta gli indeboliva il verso.
(…)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Daniele Piccini, La miniera rompe con l'intimo Fraturno, "Letture", ottobre 1997

 

 

La miniera riprende due testi già pubblicati (Fraturno del 1987 e La mia casa del 1994) a cui aggiunge una terza parte inedita. La poesia di Damiani, quarantenne originario di San Giovanni Rotondo, si presenta fin dall'esordio come letteratissima opera di restrizione estrema, da un lato dell'orizzonte tematico, dall'altro del tono stilistico, limitato a un unico registro. Già l'apertura della sezione "Fraturno" fissa tutti gli elementi del suo microcosmo poetico: i luoghi oraziani della Sabina, l'insistenza su un accento volutamente fanciullesco, costruito nel suo esito di apparente ingenuità, l'utilizzo di arcaismi lessicali e di inversioni nella disposizione dei termini e poi la continua attivazione di un'aura letteraria entro cui la nuova scrittura si inscrive (il testo in questione è una lettera che accompagna l'invio della traduzione dell'ode oraziana III, 13). Tutta la prima sezione è un'abile variazione naif sullo scenario immobile del lago di Fraturno col vicino paese di Percile e annessi alberi, fiori, stradine, animali. Quanto ai riferimenti letterari, i prelievi si estendono su un arco della tradizione, che dai latini (soprattutto Orazio: Damiani ha curato un'edizione dell'Ars poetica) si estende a Petrarca, Carducci, fino a Penna e Beppe Salvia.
Pur con i rischi di leziosaggine, di monotonia melodico-tematica, le poesie della prima prova mostrano una grande felicità compositiva: la sistematica trasgressione della corrispondenza tra unità metrica (per lo più l'endecasillabo) e unità sintattica non è avvertibile come artificio, ma dà il mirabile esito di un continuum musicale. Il poeta sa far vivere una vena di struggimento, di interrogazione, e anche una riflessione che d'improvviso si eleva sulla situazione e si fa più compiuta, universale.
Nella seconda raccolta qui ripresa, La mia casa, Damiani rompe la mirabile esattezza metrica dell'esordio e sembra avvertire l'affanno per la ristrettezza del mondo che si è costruito.
Ma è nella raccolta La miniera, la parte finora inedita del trittico, che Damiani cerca di percorrere nuove strade e altri ambiti tematici. E però la parte più incolore del volume, con testi che spesso si arroccano nell'enumerazione (quasi govoniana) di oggetti e che non hanno più lo smalto ricercato ma delizioso degli esordi né una diversa forza d'intonazione. L'operazione dell'uscita dal chiuso intimistico-emotivo di Fraturno, con le sue presenze incantate, non ha ancora sortito un sicuro approdo.