<home><poesie><bibliografia>

 

 

Giovanni Mariotti, Opere prime - Ars poetica, "L'Europeo" , n.12, 18 marzo 1988

Trovo nella cassetta delle lettere la rivista Prato pagano e, acclusa, una "plaquette" di versi:
Fraturno di Claudio Damiani (nella foto). La firma di Damiani appare anche all'interno della rivista, sotto una traduzione di Orazio. Altri poeti, che immagino giovani, firmano traduzioni di Properzio, di Ovidio, del Poliziano latino. Non so niente di questa scuola, ed è attraverso il giornale che vorrei ringraziare chi ha pensato a inviarmi rivista e libro. Prato pagano è interessante e, quanto alle poesie di Damiani, mi piacciono molto, anche se avrei difficoltà a spiegare perché (ma mi accade sempre, con la poesia). Il loro tono medio - che sembra nascere da una rilettura inattesa della poesia latina, di Orazio soprattutto - è qualità rara. Damiani si è creato un suo linguaggio "neoclassico" e il miracolo è che all'interno di tale maniera abbia scritto versi tra i più "spontanei" e teneri di questi anni.





 

 

 

 

 

 

 

 

 





Franco Buffoni, prefazione a La via a Fraturno, "Poesia contemporanea. Secondo quaderno italiano", Guerini e Associati, 1992

Molto precoce l'esordio poetico di Claudio Damiani, e autorevole: apparve nel 1978 su Nuovi argomenti per volontà di Attilio Bertolucci che - in un clima intossicato dal cosiddetto neo-orfismo da un lato e dai cascami del più esasperato sperimentalismo dall'altro - di Damiani aveva apprezzato il grande amore per la tradizione petrarchesca pur all'interno di una lettura molto attenta dei maestri del Novecento italiano (Caproni in particolare). Così, in distici gioiosi e mistici, si esprimeva allora il giovanissimo poeta:


nell'acqua l'acqua portano le bimbe
alle bimbe che piangono nell'acqua

hanno ceste celesti e con che attenti
dentini addenta il trasparente bello

l'acqua lavata in ceste di acqua dolce
goccia in gocce celesti dalle ceste.

All'inizio degli anni Ottanta ritroviamo Damiani vivacemente impegnato con un gruppetto di coetanei poeti e letterati (Del Colle, Scartaghiande, Colasanti, e soprattutto Beppe Salvia tragicamente scomparso pochi anni dopo) a condurre in porto l'esperienza della rivista romana Braci (e piti tardi - con Sica, Magrelli e altri - di Prato pagano). Leit-motiv il recupero della parola "innocente": un aspirazione che viene sbertucciata ("La parola non è mai innocente") da Franco Fortini, il quale però dichiara anche il proprio vivo apprezzamento per le qualità poetiche di alcuni componenti del gruppo - e per Damiani in particolare -. In sintesi il principio estetico su cui originariamente si fonda la poetica di Damiani può essere configurato nella ricerca della naturalezza più assoluta all'interno del rifiuto alla teorizzazione in poesia: alias la ricerca del nitore del verso, dell'integrità, della "verità" nell'assenza di metafore; dell' "innocenza" - per l'appunto - con rinascita attraverso la dizione non mediata culturalmente del proprio sentire.
Scioltisi i gruppi, trascorsi gli anni della giovinezza, Damiani continua pervicacemente la propria ricerca poetica e nell'87 dà alle stampe una memorabile plaquette intitolata Fraturno (per incidens, Fraturno è un piccolo lago tra i monti della Sabina). E qui occorre richiamare brevemente qualche dato biografico, perché per Damiani, nato nelle Puglie da padre toscano e madre romana, ha un'estrema importanza il fattore paesaggistico (non in senso pittorico, ma - diremmo - joyciano: colori, odori, rumori, sapori colti fantasticamente fino a divenire parte inscindibile della scrittura).
Un paio di anni fa, presentando Damiani sulla rivista Poesia, così concludevo: "Dove Damiani potrà approdare dopo Fraturno dipenderà da molti fattori ardui ovviamente da indicare con sicurezza; dipenderà anche dalla sua volontà e dalla quantità di coraggio. Ma i risultati fino ad oggi consegnati alla giovane poesia italiana sono tra i più coinvolgenti e originali". La silloge che qui si presenta mi pare dimostri inequivocabilmente come il poeta abbia continuato - proprio con volontà e coraggio - per la strada più ardua: quella del rinnovamento tematico e stilistico all'interno della continuità spirituale ed estetica con il lavoro precedente.
Ma consideriamo il procedimento poetico seguito, non senza avere prima ricordato una fondamentale dichiarazione dello stesso Damiani: "Non credo più nella poetica. Se penso al 'Fanciullino' di Pascoli, mi viene da dire: quella non è una poetica, ma un'arte poetica; esattamente come l'Ars di Orazio. Perché, dietro di esse, c'è la lingua. La lingua è ciò che unisce la poesia universale. E qualcosa di oggettivo, di già dato, di tradizione, di natura, di memoria, mentre la poetica è soggettiva, linguaggio, cioè impossibilità di comunicare, critica della comunicazione. La soggettività nella poesia è solo un certo modo di plasmare la lingua, ma la lingua è già data, e anche la poesia è già data, come la vita".
Credo sia fondamentale tenere presenti tali presupposti per comprendere la genesi di certi intarsi e di certe sottrazioni nella poesia di Damiani; come è stato scritto: "Damiani si è creato un suo linguaggio 'neoclassico' e il miracolo è che all'interno di tale maniera abbia scritto versi tra i più 'spontanei' e teneri di questi anni". Per Damiani poesia è l'immediatezza totale, l'assoluta assenza di mediazioni tra la parola e la cosa. Il rischio - ovviamente -è altissimo: basta una sfumatura, una sillaba fuori posto e il "miracolo" dei suoi versi può trasformarsi in rovina totale. L'equilibrio che egli è costretto costantemente a ricreare è fragilissimo, ma tanto più alto è il risultato artistico finale quanto più ridotto è stato lo spazio che il poeta ha concesso alla "scrittura". Ben poco, diremmo, quasi nulla. E per suggerire al lettore un giardino dell'anima per questa poesia - pur tenendo Orazio e Petrarca e Pascoli sempre presenti - suggerirei di riflettere - ma lievemente, solo per sussurri - su una ipotetica linea di candore e sapienza che nel nostro Novecento da Betocchi giunge a Saba a Penna a Vivian Lamarque.
Con questo non intendo affatto configurare Damiani come il prodotto di tale strano cocktail: non so nemmeno se ami Betocchi o se abbia amicizia per Lamarque. So di Saba e Penna, naturalmente (e come non potrebbero) tra i poeti più amati da ragazzo. Ma voglio aggiungere anche Betocchi e Lamarque proprio perché in essi - aldilà d'ogni differenza - ho conosciuto la medesima capacità di Damiani a compiere il "miracolo". Si tratta poi di verificare quanto più (o meno) frequentemente esso si verifichi. Quasi in ogni testo, in questa silloge, giunti all'ultimo verso si è come colti da una leggera vertigine pensando al rischio corso dal poeta. Sarebbe bastata una sillaba fuori posto per fare rovinosamente precipitare il testo. Perché in questo consiste il rischio: Damiani non ha sponde (perché non le vuole, le scaccia con violenza); pur avendo tutti gli affilati strumenti per farlo, scaccia ogni tentazione di riparo culturale, di ricorso al "mestiere". Pensiamo a quanti testi anche di grandi maestri si "salvano" solo grazie al mestiere. Rifiutarlo a priori, quando si posseggono cultura poetica e mezzi tecnici per farlo con eleganza, mi sembra un grande atto di coraggio. Premiato - a mio avviso - dalla fragranza con cui il testo consegnato alla pagina poi risponde; dalla sua leggerezza e insieme indistruttibilità. Come ha scritto Arnaldo Colasanti, Damiani è riuscito a costruirsi "vicino a Salvia, la ragione espressiva di un ideale e di una 'casa' lirica ormai perfetta e indistruttibile".
Ma attenzione: questa è tutto fuor che una poesia "facile": non la si legga velocemente, non ci si distragga.





 

 

 

 

 

 

 

 







Enzo Siciliano, Il fanciullino che ama Orazio, "L'Espresso", n.13, 31 marzo 1995

Non si può dire che la poesia di Claudio Damiani sia di gusto "splatter", proprio no. Dire che siamo agli antipodi di quel gusto è dire poco. "Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte, / che questa gatta davanti a me si sta lavando / e scorre il suo tempo, / nonostante sia sola...".
Per il gusto, per lo stile "splatter" il tempo non dà tempo al tempo. Per Damiani il tempo non consiste nella sua incantevole ripetitività. Il poemetto "La mia casa", diviso in tre capitoli, ha per protagonisti una casa di campagna (e una vecchia casa dell'infanzia), un piccolo lago sabino, il Fraturno, il sentiero che lo raggiunge, e una ragazza, che ora è presente ora no.
Ci sono poi una gatta, un cane, una volpe, le lonicere, gli uccelli della campagna, e un paesaggio sempre identico a se stesso e sempre diverso. "Tu portavi la notte azzurra / come ogni notte ancora sopra i tetti, / tu portavi la mattina bianca / alla finestra della mia stanza".
C'è in Damiani un antropomorfismo inarginabile ("Il laghetto s'è rigirato/ e con gli occhi ti ha guardato; / e tu hai steso a lui la mano/e lui l'ha afferrata con le sue dita"). Emanuele Trevi, nella prefazione al volume, parla di un recupero del "fanciullino" pascoliano. Ha ragione, ma quel "fanciullino" diventa qui un'esigenza metafisica ("che bello che non siamo eterni, / che non siamodiversi / da nessun altroche è vissuto e che è morto"), un'esigenza per affrontare il "sentiero della morte", che "prima sembrava difficile, erto/ e poi, invece, era piano".
Damiani, con Beppe Salvia, e altri scrittori romani, ha dato vita anni addietro a una rivista semiclandestinama che alla distanza prende sempre più rilievo, "Braci". Era una rivista che recuperava l'immediatezza e la complessità del pensiero llrico, contro il formalismo dilagante. Quell'esperienza, letta in controluce attraverso il poemetto di Damiani, ci parla di un bisogno di religiosità, ma anche di un'atarassia conquistata, di un sereno raggiungimento: il confronto con la realtà è un confronto con la natura, un confronto e non un annullamento in essa. Damiani sta più con Orazio che non con i mistici e i romantici.













 

 

 

 

 


Franco Loi, Da "Chiara, dolce, fresca è la lingua", Il Sole 24 ore, 2.11.1997

C'è una chiarità della lingua italiana che ho sempre amato in poeti così lontani da me e dalla mia lingua: è il vocalisimo magistrale di Petrarca, Leopardi, Penna. Lo risento quando la sorte mi conduce tra gli italiani, più umbri e marchigiani che toscani, più leccesi e chietini o pescaresi che laziali. "Solo e pensoso, per deserti campi", "Dolce e chiara è la notte, e senza vento"; "Mi nasconda la notte e il dolce vento": c'è in questi versi una linea di sussurro e di silenzio, una quasi impercettibile musica della presenza. La vocalità italiana esige brevità e semplicità, una chiara emissione del respiro. Non tollera l'espressionismo né l'intellettualismo ricercato, e non ammette la costruzione neoclassica, quello scivolo nella retorica che tanto facilmente ritroviamo nella poesia tra il Sette e il Novecento. Dice bene Saba della rima "cuore-amore", che va intesa nella sua chiarità e povertà, non nel suo scivolo sentimentale. Ci sono tre poeti, non a caso rnarchigiani, che hanno onorato questa tradizione: Franco Scataglini, Umberto Persani, Gianni D'Elia. E mi pare attento, a questa lezione, che sa cogliere al. meglio specialmente nelle sue prime raccolte, Claudio Damiani, che è nato a San Giovanni Rotondo e vive a Roma.
La miniera (di cui si è parlato su queste pagine il 19 ottobre scorso) unisce in un solo volume di Fazi, oltre a nuove poesie, anche Fraturno, 1987, e La mia casa, 1994. Bisogna segnalare anche la sua cura di un'Arte poetica di Orazio, Fazi, 1995.
"Albio è il piccolo noce (...) / albio sei così bello, o ma perché / perché sei così sano e bello albio? / Per chi? Pensavo, per chi ... E il suo respiro / lieto e quieto sentivo quasi e un'ombra / che si curvava e nella luce un lume / già via cacciavo...", dice in Fraturno.
Scrive Arnaldo Colasanti in un suo prezioso libro sul Conformismo della cultura italiana: "Quando si staccano i telefoni e si chiudono le finestre, quando il mondo scompare e lascia che la luce diffusa di. un libro ti riconcili col silenzio, con le paure del giorno, comincia allora per te un atto di serietà a cui non andrà rubato nemmeno un istante di attenzione e dì cura". Il finissimo critico dovrebbe correggere un poco il suo giusto richiamo alla critica militante: la luce che viene da ùn libro, che anzi, spesso, e lo dimòstra il suo stesso lamentarsi dei troppi libri opachi, attrae al buio e al nulla ma dalla devozione e dal silenzio in cui un critico sa calarsi nel prendere in mano un libro. E' dalla propria luce interiore che un uomo può riconoscere un'altra luce, sia pure quella di un libro - che è poi quella di un altro uomo, della sua presenza, della sua parola. "Alla fine di ogni libro, ciò che resta è il volto di un uomo", dice infatti, ma non è solo il volto, è qualcosa di più: l'alone sconosciuto della sua luce e della sua esistenza.
Ed è appunto questo che traspare dalla poesia di Damiani: "Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte".


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Roberto Galaverni, Claudio Damiani, in Nuovi poeti italiani contemporanei, pp. 243-248,Guaraldi, 1996


Claudio Damiani è nato a San Giovanni Rotondo in provincia di Foggia nel 1957. Fin dall'infanzia vive a Roma. Ha esordito pubblicando alcune poesie su "Nuovi Argomenti" nel 1978, quindi nella prima metà degli anni Ottanta è tra i fondatori della rivista "Braci" e successivamente tra i collaboratori di "Prato Pagano". Il suo primo libro, Fraturno (Roma, Il Melograno - Edizioni Abete 1987), raccoglie la produzione poetica compresa tra il 1984 e l'anno di pubblicazione (le liriche degli anni precedenti non sono invece ancora state raccolte in volume). Da ultimo nel 1994 è uscito La mia casa, Forte dei Marmi, Galleria Pegaso Editore (introduzione di E. Trevi), che riprende al suo interno La via a Fraturno, precedentemente apparsa nel 1992 in Poesia contemporanea. Secondo quaderno italiano, Milano, Guerini e Associati 1992, con una prefazione di F. Buffoni. Un suo testo teatrale, Il rapimento di Proserpina, è stato rappresentato a Roma nel 1986.

La poesia di Damiani è caratterizzata dall'assenza pressoché assoluta di componenti intellettuali e dal valore fondante che in essa assume una radicale semplificazione al contempo psicologica e stilistica. Le figure di volta in volta rappresentate, ma sarebbe meglio dire candidamente cantate e celebrate, accedono alla poesia soltanto attraverso la strettissima aderenza del sentimento del poeta, che fa proprie poche semplicissime gioie e inquietudini, per così dire naturali, assolute (l'amore, la gioia, la paura, lo stupore, ecc.), abbandonando al contempo ogni riferimento alla propria biografia culturale (e i versi finali della seconda Elegia di Fraturno, unica eccezione, indicano la necessità di tale estromissione), come del resto a tutto ciò che si trova al di fuori del suo piccolo mondo poetico. Attraverso una serie di ripetuti avvicinamenti e individuazioni, il canto del poeta stabilisce una trama di corrispondenze sentimentali all'interno di un'esistenza e di uno spazio ridottissimi, che si accentrano sui luoghi oraziani della Sabina, che oltre alla fonte Bandusia comprendono il lago amato, Fraturno, la casa, i pochi sentieri e alberi (il nespolo, il noce, i meli, i "cipressetti"), qualche animale, con una indipendenza così esclusiva da portare quasi al convincimento che al di fuori di quelli non possa esistere nulla di vero, a cominciare dalla stessa poesia: "subito apprendi / che tutto è vero, ogni cosa che vedi / è vera, e svolge la vita nel tempo / e è intera...".
Proprio quest'ultima, poi, in sintonia con l'istanza elementare dell'ispirazione, non viene intesa come una forma privilegiata e quasi miracolosa di espressione, quanto come quella immediatamente più consona alla definizione di un sentimento di armonia con gli esseri del creato. La scrittura poetica viene in tal senso felicemente riscoperta e praticata come spontanea e più semplice espressione della partecipazione del poeta ai movimenti del cuore e alla bellezza della natura: "Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte". Si direbbe che tutto il linguaggio, e dunque che la prosa e la poesia insieme facciano parte di un bacino comune che è quello della cantabilità e dell'amore degli esseri e delle cose; per cui se la prosa poetica non ha bisogno, com'è invece della più comune prassi novecentesca, di una marcatura stilistica nobilitante, parallelamente la poesia stessa viene accettata in pratica soltanto come adesione a un comune codice letterario che stabilisce che sia scritta in versi (in Fraturno soprattutto endecasillabi, a tradire la presenza di una nobile discendenza letteraria che da Petrarca arriva fino a Caproni e che nella produzione degli anni di "Braci" riesce ancora ben visibile). Ma nella qualità della parola, in quello che viene sentito come il suo cuore lirico, per Damiani sembra non esservi differenza. Basta rifarsi alle poche prose inserite nei due libri, per verificare come il linguaggio, gli stilemi, l'intensità dell'intonazione siano esattamente gli stessi delle poesie. Così in questo brano di Morella contenuto nell'ultima sezione di La mia casa: "Morella, quanto ci misi per trovarla, tagliando con la roncola i vepri! Morella non si vedeva, e io ci camminavo sopra! Io tagliavo i cespugli e gli spini, e lei era sotto i miei piedi". Mentre un componimento come Begli uccellini lieti, insieme di prosa e poesia, mostra in atto la possibilità di un fluido, in pratica ininterrotto trascorrere dall'una all'altra, soltanto attraversando una quasi impercettibile linea di demarcazione.
Il piccolo cerchio poetico di Damiani - e si tratta, come ha scritto giustamente Trevi nella sua introduzione a La mia casa, di un "mondo che sembra avere accolto in sé il tempo della giustizia" - ha bisogno per esistere di una sicura intimità d'affetti, di un tepore e di un'amicizia che sono quelli stessi della "casa", di una confidenza affettuosa e raccolta entro la quale soltanto è possibile realizzare quell'armonia che permette alla voce poetica di fare propri e tenere i tasti più teneri e freschi, apparentemente ingenui del sentire. In questo ambito di intima e vicendevole apprensione, si spiegano anche i continui richiami alla donna con una formula delle più prevedibili - "amore", "amore mio" - ma riscattata (secondo una procedura che vale del resto per l'intera poesia di Damiani) dalla necessità reale dell'intesa amorosa (e si tratta di un colloquio che trova probabilmente un precedente nell'"amica", "amica mia", del Saba di Casa e campagna e Trieste e una donna).
L'estrema semplificazione sentimentale e la genesi emozionale ed euforica della scrittura fanno sì che dal punto di vista stilistico il discorso poetico risulti affatto elementare e quasi disadorno, come se in esso la parola si fosse decantata della propria vocazione letteraria, risultando allora decisiva anzitutto la sincerità dell'intonazione relativa alla partecipazione accorata, alla condivisione della sorte degli altri esseri. Ciò porta all'utilizzo in pratica continuo della coordinazione esplicita, che sembra equivalere in Damiani a una completa assenza di gerarchie, e dunque alla percezione della parità e dell'intègrità libera e inattaccabile di ogni essere naturale (v. qui Albio è il piccolo noce...). A interrompere la coordinazione sono soltanto le frequenti domande e le esclamazioni corrispondenti ad altrettanti moti di stupore, di sorpresa, o anche di leggero timore; come accade nell'Elegia di Fraturno dedicata agli ippopotami: "amore / te li ricordi? Oh come erano teneri / e dolci. E tu dicevi: "Dove sono? / Perché mai dici che son belli se / non si vedono?". Oh, amore, erano / nell'acqua e forse non sapevi il nome / italiano quand'io dissi: "Tesoro! "" (ma relativamente a questo.procedere per continue fioriture emozionali, soprattutto attraverso l'uso dell'esclamativo per sottolineare il valore di prodigio di un semplice fatto o gesto quotidiano, a determinare una sorta di sospensione appena angosciata, come nell'allusione a un'irraggiungibile primavera delle cose, viene alla mente ancora il nome di Saba, che del resto si può leggere in trasparenza anche in altre figurazioni; ad esempio in quelle, comunque prive dell'ambivalenza sentimentale sabiana, di alcune fanciulle: "La tua grazia somiglia una fanciulla / che si rivolta e si tira su, con le mani, i capelli").
Proprio l'uso della coordinazione e del polisindeto, a unire non solo proposizioni, ma anche sostantivi e aggettivi, determina un andamento di semplicità quasi elementare, ma di continuo rilanciato dalla felicità di scoperta costituita da ciascuna delle nuove attribuzioni che nel loro accumulo progressivamente definiscono l'oggetto della lirica. In sintonia con il carattere anti-novecentesco di questa poesia (che pertanto deve essere letta con la necessaria disponibilità e apertura), la profusione di congiunzioni, da cui la fluidità e il legame degli elementi strofici, ma soprattutto l'armonia e l'unità tra l'io poetico e le figure rappresentate possono essere considerate un modulo antitetico a quel procedimento per eccellenza distanziante e impersonale, oggettivizzante e allusivo, che è l'elencazione ellittica comune a tanta lirica di questo secolo. Non a caso le figurazioni di Damiani sono attraversate da un sentimento quasi animistico della natura, che porta alla rappresentazione di cose e animali come fossero essere umani; così, ad esempio, i papaveri di Per il "Calendario ", che "la mente distolgono / dalle faccende loro e al mio tesoro I sola indi-rizzano i capi e gli steli"; oppure il piccolo sentiero che segna La via a Fraturno: "Stradina, ti ho guardato e ho visto che non sei triste, / che d'essere abbandonata non ti curi, / ma lieta e contenta sempre vai avanti e indietro, / sempre porti alla tua casa abbandonata" (questo accordo con quelle che Damiani sente come creature pienamente viventi, questa spiritualità casta non possono che rimandare al grande archetipo del Cantico di San Francesco; per cui si veda anche un'immagine da agiografia francescana come la seguente, tratta da una delle poesie dedicate agli uccellini: "E tu uno a uno li vedi e li prendi / nelle tue mani luminose d'oro").
Nel complesso, tutte le particolarità stilistiche della lirica di Damiani vanno intese nell'ambito di una disposizione sostanzialmente antiretorica, per cui per esempio gli arcaismi abbastanza frequenti (opre, fere, guata, lene, ecc.) non hanno funzione di decoro o di rimando intertestuale, ma piuttosto vengono sentiti come elementi che proprio la lunga consuetudine letteraria, l'appartenenza a una secolare tradizione 'di poesia ha fornito di una insostituibile verità e naturalezza. In tal senso si può parlare di una tradizione tendenzialmente assimilata a un livello di lingua naturale. In modo simile, l'uso di lievi inversioni, di ripetizioni (numerose ad esempio in Se fossi qui seduto e non avessi, qui riportata), di moduli di semplicità sorprendente ("vorrei sentire che la mia casa / non è triste, ma è lieta"), vicini ora al parlato dei bambini, ora a una cadenza di filastrocca (magari con clausola in rima, come in Uscendo ho visto un gattino), vanno attribuiti all'alleggerimento del controllo razionale e di quella che si può definire come la dignità morale della maturità, in favore di una fiducia totale nella verità delle insorgenze sentimentali e della loro spontanea determinazione poetica, col risultato di un'incertezza e di un'imprevedibilità quasi infantile nella costruzione della frase e nella disposizione dei suoi elementi (da più parti non a caso è stato richiamato il fanciullino pascoliano, ma privato delle sue originarie componenti intellettuali).
Anche dal punto di vista stilistico, dunque, il discorso poetico di Damiani è caratterizzato da una sostanziale freschezza, da una grazia lieta che è tutt'uno con l'armonia e l'affidabilità degli affetti, con l'intensa tramatura emotiva che garantisce la sopravvivenza della poesia all'interno di uno spazio custodito amorosamente, ma su cui aleggia come un'ombra di timore, una malinconia leggera, un dubbio di fragilità, quasi che agli esseri della natura potesse prima o poi venire a mancare il conforto, la vicinanza sentimentale che preserva dalla solitudine e dall'isolamento, o addirittura che il piccolo mondo che vive attorno al lago e alla casa possa essere un giorno disertato dalla serenità e dall'armonia delle cose; come si avverte nella prima poesia della sezione Il gattino nero, compresa in Fraturno: "Mutolo mugola solo / nel piccolo orto deserto solingo... / (E già il giardino le foglie ricoprono, / già lento scende dai gelidi monti / l'Autunno triste col querulo flauto)".







 

 

 

 

 

 

 

 



Franco Loi, Verde voce del paesaggio, Il Sole 24 ore, 2 luglio 1995



La poesia italiana conosce una stagione davvero incredibile. Già anni fa Gianni D'Elia, riferendosi soprattutto alle nuove esperienze in dialetto, parlò con molto acume di "neovolgare e di esperienze neoprovenzali", volendo con quell'osservazione, non tanto riferirsi a un paradigma stilistico, quanto a un fenomeno di più vasta portata e di più profonde motivazioni socio-culturali, a un avvenimento letterario che celava implicite conseguenze spirituali. Per ragioni di lavoro, e anche di propensione agli incontri e al dialogo con la gioventù, - per me è gioventù ciò che è vivo - mi capita in questi anni di viaggiare per tutta Italia, di entrare nelle scuole, di incontrare persone di ogni età e di diversa condizione, di partecipare a convegni: una specie di viaggio nell'intimità di una nazione. Ebbene, la poesia vi ha largamente il predominio. Certo, non sottovaluto le ragioni socio-psicologiche di questo interesse, e nemmeno le vanità e la falsa poesia. Ma il valore di alcuni di questi poeti è davvero notevole, e molte di queste poesie fanno emergere aspirazioni e patrimoni spirituali che ci parevano morti, e tuttavia rimangono sommersi dai costumi e dalle abitudini di massa.
Se la poesia è richiamo alla tradizione, velo rinnovato di verità sommerse dalle convenzioni, riproposta alle generazioni dei fondamenti del credere, del fare e del dire, e infine tramite di conoscenza e di orientamento verso le verità nascoste, ebbene fa piacere riascoltare versi come questi: "Begli uccellini lieti / che sul ramo cantate / col vostro dolce canto / il mio amore svegliate". Certo, non per dimenticare gli "uccelletti" infausti, ironizzati da Brecht, la sua offesa reazione al lirismo nel momento dei forni crematori e dei gulag - efferatezze che si perpetuano, con altri nomi e sotto altri cieli, ma con la stessa protervia disumana, anche oggi - ma per cogliere la tenerezza, il desiderio d'amore di tanta gioventù, la sopravvivenza di anime come quella di Claudio Damiani che, per questo suo La mia casa, vorrei avvicinare ad Angelo Rosato, nei suoi Sequeris d'amor altrettanto gioioso di candore e di indifeso dolore. "Veniva ai vetri un'alba luminosa / m'ero svegliato, non so come, / ma come se ancora dormissi / o come se non ci fosse stato trapasso, / vedevo ai vetri l'alba, e mi pareva, / ora nella memoria a ripensarci, / vedendo la mia stanza di ragazzo / con il tavolo, i libri / e alla finestra le tendine bianche, / e mi pareva come girasse / come sospesa, come se nel vento / senza fermarsi andasse…". E' sorprendente questa immediatezza fresca, questo antico - penso ai tardo provenzali - modo di abbandonarsi, di lasciarsi cogliere dal profondo sentire delle lievi cose. Vera l'osservazione di Emanuele Trevi: " Per lui scrivere poesie 'come sempre sono state scritte' non è il segno di un'opzione tra diverse possibilità d'impiego della lingua, ma l'adesione spontanea, spirituale e corporale, alla voce di un paesaggio", e, aggiungerei, alla propria voce, all'ascolto del proprio più profondo sentire.
Non sono tra quelli che si fanno schermo di uno stile o di una ideologia: come si diceva tempo fa e qualcuno anche oggi, di una poetica. Amo la poesia e l'apprezzo quale espressione, carne e anima, di un uomo, del suo modo di stare nel mondo. Anzi mi fa piacere la diversità, che mi pare un segno di verità. E qui, nella lirica di Damiani, ritrovo sentimenti semplici, a volte troppo dolci per sopportarli nella loro impudicizia, ma sono moti comuni, sottaciuti ma veri.: "L'accarezzavo ed ecco / non riuscivo più a andare via. / Staccarmi da lei non era possibile. / Lai mi guardava con il suo sguardo triste, / i suoi occhi davanti ai miei. / Non potevo più andare via", "Le foglie dell'eucalipto / hanno sfiorato la tua guancia. / Gli eucalipti stanno male, / sono magri, stanno morendo. / Oh accarezza i loro rami, / bacia, amore, le loro foglie!". A me questa poesia, in mezzo a tanta intellettualità fasulla e violenta, dà ristoro e conforto, come sempre fa la presenza del cuore e la capacità di dirsi oltre le paure della mente e gli impedimenti delle tante convenzioni. Prendiamo dunque atto, riconosciamo la nostra gente, e la stagione che sta forse aprendosi, pur nel pericolo della catastrofe, a un tempo nuovo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Umberto Fiori, La miniera, Atelier, n. 7, Settembre 1997


La poesia di Claudio Damiani (La miniera raccoglie il suo lavoro dal 1984 al 1995) rischia di provocare al primo contatto uno scandalo che nemmeno i più arditi esperimenti sono ormai in grado di suscitare, tanto mite, commossa e disarmata ci si offre.
"Vorrei restare / qui tra le lucertoline": basterebbe un incipit come questo per mettere in allarme più di un lettore (così si allarmerebbe la padrona di casa di fronte all'ospite che - molto pacatamente, con un sorriso - mangiasse i maccheroni con le mani). Diminutivi, vezzeggiativi, esclamativi, interiezioni, effusioni, idilli: Damiani "si permette" pressoché tutto quello che le regole non scritte di un galateo poetico ormai secolare proibiscono (o quanto meno sconsigliano); si può dire, anzi, che l'identità del suo lavoro - un'identità nettissima fin dagli esordi - abbia preso forma proprio da un sistematico, caparbio rovesciamento di quel galateo. Leggendolo si pensa ai crepuscolari (soprattutto Corazzini direi) poi magari a Penna, a Saba, a un certo Caproni, e ancor più a quel diffuso e variegato antinovecentismo che ha fatto da antifona al Novecento più accreditato; ma la trasgressione "dolce" di Damiani mi sembra assumere - in questa fine di secolo - caratteri ancor più estremi ed estremamente anacronistici. Di un tale anacronismo l'autore è tutt'altro che inconsapevole e si affretta anzi a suggerirne - in versi - un'interpretazione forte, dove la polemica è appena attenuata dal tono mansueto: "Che bello che questo tempi è come tutti gli altri tempi, / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte". Siamo di fronte, insomma, a un'idea radicalmente antimoderna di poesia, nata dal rifiuto di ogni avanguardismo, di ogni "progresso" in arte, di ogni feticismo del Nuovo; non per caso La via a Fraturno (la raccolta che è un po' il cuore di questo libro) elegge Orazio a proprio nume tutelare e a proprio scenario il paesaggio arcaico e appartato della Sabina.
Ma qui mi fermo. Quando bene avrò parlato del "classicismo" di Damiani, quando avrò dato conto dei suoi connotati stilistici, quando gli avrò trovato una collocazione nel nostro Novecento, che cosa avrò detto della sua poesia a chi ancora non la conosce? Poco o nulla. Invece, da dire, ne avrei. Forse però in altri termini, su un altro piano, perché non è a partire da considerazioni critiche che mi sono avvicinato a Fraturno o a La mia casa; anzi, sono arrivato ad ascoltarli e ad apprezzare queste composizioni nonostante gli ostacoli che poetica e stile mi opponevano. Avevo - come molti, credo - un pregiudizio contro la poesia che si pretende semplice, fanciullesca; l'esibizione di anime belle, scene campestri e sentimenti puri mi hanno sempre un po' disturbato; i diminutivi, poi, mi fanno venire l'orticaria; eppure, nel lavoro di Damiani qualcosa mi convinceva: qualcosa di importante, di decisivo. Ci sentivo - non saprei come altro dirlo - la poesia. Argomentare questa dichiarazione - me ne rendo conto - è arduo e forse anche un po' inutile; posso però cercare di chiarire (a me stesso, innanzitutto) quali tracce mi abbiano portato al punto in cui ho ascoltato, in questi versi, mi è sembrata una voce vera.
La prima traccia è l'assenza di ironia. A differenza dei crepuscolari - ai quali si è portati ad accostarlo - e di tanta poesia di questo secolo, Damiani non si sdoppia, non gioca a rimpiattino con il lettore, non mette in piedi ambigui teatrini dell'anima. Non allude: dice. A ciò che dice ci si può sentire estranei, ma è difficile negare che venga detto davvero, senza riserve (e spesso con una chiarezza disarmante).
La seconda traccia è quella che chiamerei una sconfinata attenzione, una concentrazione assoluta sulla materia del dire. In questo libro le cose (il lago Fraturno, la casa, la strada, gli alberi) vengono investite da una luce apparentemente inesauribile, pia, vibrante di affetto e di premure. Non è l'occhiata dell'esteta, che penetra e stravolge e trasfigura: è lo sguardo di un padre, di una madre, di un amante, uno sguardo che riconosce e custodisce. Anche qui si può trovare insipido l'oggetto di tante cure, ma è difficile restare indifferenti di fronte a tanto amore, rispetto, sollecitudine.
La terza traccia è l'impressione di una necessità: leggendo e rileggendo La miniera si ha la sensazione che questa scrittura sia il risultato - più che di un'opzione stilistica - di un abbandono, di un accoglimento di ciò che è. Riconoscendo un luogo, Damiani ha insieme riconosciuto la voce che è sua, e con quella canta, senza cercare di contraffarla, di infiocchettarla. Direi, anzi, che dalle poesie più lontane nel tempo (la bella ode Fraturno dal tono classicheggiante) a certe composizioni recenti quella voce si sia esposta sempre più nuda al lettore, fino a non farsi più scudo di nulla (in questo senso trovo meno riuscite, perché più "vestite", le ultime poesie di argomento mitologico).
Altrettanto chiaro, altrettanto nudo e vero della voce che lo canta appare al lettore il paesaggio, col suo lago, i suoi pioppi, i sentieri, le nuvole, gli animali. Fraturno c è; di questo siamo certi, a libro chiuso. Che altro è la poesia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alessandro Moscè
da "Lirici e visionari, poeti italiani contemporanei", a cura di Alessandro Moscè, Il lavoro editoriale, 2003.



Sin dagli esordi che avvennero con la raccolta Fraturno (Roma, Abete, 1987) Claudio Damiani esprimeva tutta la sua effusione compita nei luoghi più intimi, che lo fecero presto inquadrare un poeta domestico sulla linea di Saba, seguendo quella terza via, dopo il grande stile e l'avanguardia, che nel Secondo Novecento è stata al centro della dialettica secolare.
Il poeta nativo del Gargano colpì per il senso assolutamente privato con il quale proponeva i suoi versi, senza distacco tra poetare ed essere, tra il mondo del territorio, del giardino, dell'albero di noci, del piccolo gatto, degli angoli più nascosti, bui, reconditi, e la rappresentazione dell'uomo (o la misura dell'uomo verrebbe da dire),in una coesione salda, durevole.
Damiani è il poeta degli incanti e di una autenticità fanciullesca che lo "costringono" ad esprimersi dentro una scrittura certa, umile, mai artefatta da un verso complesso. Affronta a viso aperto il mondo, alzando la testa, ripiegandola, acquisendo una sostanza invariabile dove emerge il candore stupito negli interrogativi esistenziali diretti, lievi. Vengono affrontati i cosiddetti temi totali, escatologici, con una visione laica, ma potremmo aggiungere "sacra", di quella sacralità laica che appartiene alle cose. I temi totali del poeta sono quelli che si dispiegano essenzialmente in tre snodi: da un lato l'amore, dall'altro la morte, e come in unico involucro, che possa unire l'uno e l'altro aspetto, il dubbio sul come andrà a finire, l'assillo del dopo. Ed è proprio il dopo che avvince di più Damiani nei suoi immancabili luoghi, perché "dalle cose che si vedono", come in un verso scrive, dallo "svolgimento della vita del tempo intero" (altro verso), si passa a quel non sapere dove interagisce una predisposizione d'animo infantile, incontaminata. In questo fazzoletto di tempo terreno e di insondabile verità sul percorso continuativo dell'uomo, tra gelo e speranza, tra mistero e intuizione, Damiani diventa poeta, accetta la morte come simbolo di fratellanza, perfino come futuro che sente tra lui e gli altri, tra lui e il mondo, riuscendo nell'intento forse più singolare di non usare mai la misura della parola congenitamente poetica, ma di rendere, distillandole, parole comuni alla resa stilistica. E la musicalità del verso funziona, con un'assonanza padrona dell'ambientazione conchiusa, dei tanti personaggi "eroi dell'antieroismo": uomini, giovani, bambini, cieli, foglie, grilli, brezze. La corporeità sembra anche di entità non umane, alberi come cuori pulsanti, come oggetti che provano sentimenti ("Albio è il piccolo noce che è a sinistra / della strada salendo dalla casa / al cancello. Passando stamattina / l'ho guardato e ho veduto che aveva / fatto delle nocette, a coppie, già / grandine, verdi lucide, un po' rade…").
E' efficace la grazia immacolata dell'autore, con la quale le battaglie del vivere sono alimentate anche dalla forza della natura, dai respiri di chi non respira, dai sogni di chi non sogna, da idee di chi non ha pensiero. Queste forme umanizzate del non umano determinano un'ulteriore fusione, cioè non solo dell'uomo con l'ambiente, ma anche del luogo con il luogo. Non esistono in Damiani privilegi né gerarchie o priorità; l'uomo, le cose e gli spazi sono sotto la stessa luce, senza distinzione ("Non sono una fanciulla, / perché vuoi prendermi, perché vuoi baciarmi?"). Non l'uomo che chiede ammansito alla stradina, ma la stradina che chiede all'uomo in un dialogo capovolto e vacillante.
La seconda raccolta, dal titolo emblematico La mia casa (Forte dei Marmi, Pegaso, 1994), è impressa mediante una costante che ritorna sempre e che conferisce freschezza vitale, mai finitezza al mondo e alla storia più circoscritta della vita poetica. La casa è una specie di teatrante. La casa che si sente sola, come se la tristezza fosse in un abbandono delle mura, delle pareti, come se la vita segreta fosse di chi ha dovuto sopportare un peso troppo grande. Un sentimento fragile si alza, grida il suo stupore e il suo "dolore sereno".
Claudio Damiani sembra si strugga per ciò che non parla ma che sente la vita attraverso un'esistenza propria, mai inerte: la casa e il lago, il ruscello e il sentiero. Senza voce, ma in un silenzio raccolto ("Che bello che questo tempo / è come tutti gli altri tempi / che io scrivo poesie / come sempre sono state scritte, / che questa gatta davanti a me si sta lavando / e scorre il suo tempo, / nonostante sia sola, quasi sempre sola nella casa...").
In La miniera (Roma, Fazi, 1997) Damiani rimane nella "dimensione smisurata e perimetrata" dei suoi luoghi reali e mentali, continua a porsi interrogativi che non hanno una risposta compiuta, che sono il tentativo di garantire all'esistenza un senso di meraviglia creaturale in un mondo ignoto, che solo la fanciullesca predisposizione a cogliere il significato più terribile, regresso e onnipervadente, giustificherebbe.
La miniera è la raccolta del piccolo borgo quieto, Morella, sopra il paese, la zona cara a Damiani nella circolarità degli spazi che sembrano la conservazione innanzitutto della memoria attiva, dell'infanzia e dell'adolescenza dilazionate ("E anche adesso, pure senza le case / e le strade / come sei bella con il tappeto dell'erba / e i cespugli di rosa che fioriscono ai tuoi capelli / e l'ombra fresca dei faggi / e Fraturno che brilla sotto, ai tuoi piedi, / e non si è mai allontanato da te").
E' quel -non si è mai allontanato da te- a dare l'impressione che Damiani estrinsechi la sua ossessione verso il luogo di appartenenza, esattamente come il legame compatto che fonde un quartiere e un paese, una strada e una casa, un mattone e un tetto, un'erba e un cespuglio. Il girovagare si chiude nell'invariabile che segna un destino nitido, uno stretto spazio che è riparatore e allo stesso tempo difensivo.
L'io esposto in Eroi (Roma, Fazi, 2000) esplode in tutta la sua carica emotiva, l'amore, la morte e il dubbio, uniti alla speranza, si installano in un unico blocco, con quell'innocenza un po' fiabesca, teneramente contesa.
L'io coglie il contrasto con il tempo, quello stesso tempo che scorre inesorabile mentre i ragazzi fanno il tema a scuola (Damiani è insegnante), mentre la luce brilla intorno ai loro capi chini. Attesa e speranza in un abisso di luce, direbbe forse l'autore, in questo tempo tiranno che consegna le spoglie di un presente invecchiato. Non c'è né ironia né fede a ripagare l'uomo dentro lo scandire del tempo, c'è solo la cognizione mai avvinta di ricominciare da un'altra parte, chissà dove e chissà quando. Ma l'altra parte è l'estremo di un ciclo dove tutto potrebbe ritornare al principio del viaggio, e questo principio non è afferrato e condiviso, quindi la sensitività di Claudio Damiani va a cozzare contro un afflato panico che nell'armonia nasconde, verosimilmente, l'atavica paura di tutto il genere umano.
Insieme si va a morire, ma la verità indubitabile non salva l'umanità dal dubbio ancestrale. E sembra proprio il dubbio prendere la strada della confidenza, dell'innocenza e della rassicurazione bambinesca in un'età già matura: l'unica consolazione possibile.
La poesia di Claudio Damiani ha, di fondo, un irrigidimento esistenziale che racchiude l'ordine intimistico e decadente tipico della poetica del fanciullino pascoliano, dove la sensibilità è quella dell'ingrandire il piccolo e di rimpicciolire il grande. Non è una poetica estetizzante ma anticlassica, la connotazione più precisa dopo i luoghi di appartenenza, dopo il pathos delle Sabine. Il sentimento e la visione, semplici e umili, sviscerano l'amaro e il dolce rendendoli conciliabili, soavi, specie nel ricordo.
Si guarda alla poesia e non al poeta, diceva Pascoli, e Damiani ripercorre una linea domestica dove il segno indelebile del mondo e dei suoi sentori è concepito nel "frammentismo", cioè in immagini isolate e ravviate nel motivo conduttore della sequenza ritmica. La poetica ne esce fuori assolutamente vera, una candida espressione che contiene la bontà e la pacificazione.
Il simbolo mitico di un'età, la fanciullezza, annulla ogni altra misura, perché questo artificio indispensabile (il tempo), è guardato nella difesa umana attraverso la trasfigurazione del fanciullo che chiede e ottiene risposte da un suo simile già grande. Il tempo esistenziale giace in una moltitudine di domande che si accavallano, che offrono risposte alla mente del bambino, capostipite della vera supremazia di specie.
Il dialogo ha la forza incredibile della vita e della morte, niente è svelato né sul perché né sul come la verità ultima ci attenda, ma un collante tiene insieme domanda e risposta, inscindibili equilibri dal vibrante impatto emotivo.

-Ma quando crescerò, tu diventerai piccolo?
-No, diventerò vecchio...
-E poi andrai in cielo?
-Si, e tu diventerai vecchio.
-No, io non diventerò vecchio. Ma è vero che dal cielo si può riscendere?
-Beh.., forse... Ma non serve, perché in cielo si sta bene... e quando io sarò in cielo ti aspetterò. Poi verrai anche tu e staremo insieme in cielo. Sei contento?
... Ma perché non possiamo stare qui?
-Beh...
-Ma che, diamo fastidio a qualcuno?

La morte come naturale evoluzione, come salto di grado che non terrorizza il poeta, né il bambino. L'inconscia paura e la consapevolezza scuotono, niente di più. Eroica vita, dono ereditato da una civiltà che sperimenta la morte come allegoria, come flemmatica gratitudine all'esistenza e ai suoi misteri infiniti.