A un certo punto, giunti su un'altura
dove c'erano quattro baracche
scesero dal carro. Cadeva ancora la neve
dal cielo, e dai rami di un grosso pino
sopra le loro teste.
Il carrettiere slegò i cavalli. I due poeti e il seguito
presero stanza nella locanda affumicata.
Tutta la notte Li Po e Tu Fu alzarono le coppe;
gli ufficiali del seguito s'erano presto addormentati,
ma loro ancora amabilmente conversavano.
Tu Fu parlò della sua casa natale,
dell'infanzia felice nella natura, dei giochi,
Li Po parlò della capitale,
di feste e danze, dei giorni fugaci della giovinezza.
Ed ecco si fece bianca la finestra dell'alba,
una luce scialba, un biancore irreale penetrò nella stanza.
Parlarono ancora dei loro morti,
parenti e amici che avevano dovuto abbandonare.
A un tratto Li Po si alzò,
Tu Fu stette ancora seduto per un po', poi anche lui si alzò,
stettero in piedi per molto tempo in silenzio,
mentre tutti dormivano, nel silenzio della locanda.
La neve fuori aveva smesso di cadere
e il vento si era quietato.
Li Po prese la bisaccia e s'incamminò
sulla strada bianca.
***
Questa sera sento gli alberi tristi,
camminando vicino a loro sento il fruscio delle foglie.
“Non siamo tristi - mi rispondono - stiamo ascoltando”
“Che cosa?” chiedo a loro,
“Il silenzio della sera nella bellezza dei monti,
le voci dentro il silenzio nel trasmutare dei colori”.
Davanti a me vedo il dietro di un albero,
le spalle nell’ombra, non so immaginare il suo volto,
vedo le braccia allargate a ricevere il silenzio.
La sera gira intorno come a cerchi concentrici,
a passi piccoli facendo piccoli scherzi,
gli alberi ridono e si rincorrono per il prato,
io appoggio la testa a un tronco addormentato,
i tronchi sono stanchi, le foglie si addormentano,
la sera è come un bisbiglio assordante,
un odore troppo forte per le mie narici,
mi addormento con le mani strette alle radici.
***
A tarda ora ancora
intingi i pennelli…
Torna a casa insieme ai tuoi compagni.
Mi avvicino dietro di te e vedo le tue mani
piccole, tozze, tutte screpolate,
le unghie non curate, le pelli intorno mangiate
- penso alle mani delle concubine a palazzo,
delle suonatrici di p’i-p’a, bianche come la neve -,
vedo gli sgorbi che fai dirigendo il pennello
sulla translucida carta
- come farò a insegnarti?
Vestita così male, sempre desiderosa di ridere,
- forse è un modo per nasconderti - ma se ti guardo nel viso
vedo la povertà del nostro grande paese
e la gloria dell’impero,
vedo, dietro i tuoi occhi, anche i barbari
e tutti i popoli della terra.
Vedo dentro i tuoi occhi ardere un fuoco
che dilaga per le foreste
brucia intere regioni, si dirige verso la capitale,
la città è circondata, il fuoco lambisce le mura,
l’esercito combatte ma vengono arsi i fanti,
il fuoco si appicca al palazzo imperiale,
circondato dalle fiamme anche l’imperatore muore.
E come sei fatta bene
e come si può godere il tuo corpo
anche solo guardarti e lasciarsi ferire
lasciando affondare il tuo sorriso nelle mie carni,
o lasciarti libera, aprire le mani e lasciarti scappare,
o guardarti come da un vetro, pensarti
senza vederti, soltanto immaginarti
senza averti mai visto, senza averti
conosciuto. Aver saputo di te
per sentito dire, da voci della strada,
voci di marinai dalle banchine dei porti,
aver sentito dire che forse non esisti
e sono tutte storie quelle sul tuo conto,
che qualcuno ti ha inventato solo per creare scompiglio
per invidia o gelosia, solo per fare male.